Fu solo in quel momento che Don si rese conto che il soldato non indossava la divisa verde a chiazze della Federazione, ma l’uniforme marrone rossiccio delle Forze di Superficie della Repubblica di Venere.
L’ufficiale comandante del soldato, un certo tenente Busby, cercò di sottoporre Don a un interrogatorio nella cucina della fattoria che si trovava all’interno del recinto, ma si accorse molto rapidamente che il prigioniero non era in condizione tale da permettere un interrogatorio. Perciò consegnò Don alla moglie del padrone della fattoria, che gli diede del cibo, gli procurò un bagno caldo, e cercò di sottoporlo a una cura medica di emergenza. Molto più tardi, nel pomeriggio, Don, molto più calmo, rinfrescato, e con le chiazze rosse lasciate dalle sanguisughe del fango medicate, finalmente poté spiegare il motivo della sua presenza in quel luogo, e la storia delle sue vicissitudini.
Busby ascoltò fino in fondo la sua storia, e alla fine annuì brevemente:
«Accetto la tua storia sulla parola, soprattutto perché è quasi inconcepibile che una spia della Federazione possa essere stata dove sei stato tu, vestita come tu eri vestito, e nelle condizioni in cui ti abbiamo trovato.» Continuò a interrogarlo, con grande ricchezza di particolari, su quello che aveva visto a Nuova Londra, sul numero di soldati federali presenti nella città, almeno secondo una valutazione approssimativa, sul tipo delle loro armi, e così via. Disgraziatamente, Don non poté dirgli molto. Recitò la «Legge di Emergenza Numero Uno», cercando di ricordarla parola per parola.
Busby annuì.
«L’abbiamo ascoltata, attraverso la radio di Padron Wong.» Indicò con il pollice un angolo della stanza. Per qualche momento, rifletté, socchiudendo gli occhi. «Sono stati furbi; si sono ispirati al commodoro Higgins, e hanno sfruttato con molta furbizia questa ispirazione. Non hanno bombardato le nostre città; si sono limitati a bombardare le nostre astronavi… poi sono sbarcati, e hanno bruciato le nostre case, scacciandoci dalle città.»
«Ci rimangono delle astronavi?» domandò Don.
«Non lo so. Ne dubito… ma non ha importanza.»
«Uh?»
«Perché sono stati troppo furbi; hanno voluto strafare. Non rimane più nulla che essi possano farci; d’ora in poi, dovranno combattere la nebbia. E noi mangianebbia conosciamo questo pianeta assai meglio di loro.»
Don ottenne il permesso di riposare, per tutto il resto del giorno, e per tutta la notte seguente. Ascoltando le chiacchiere dei soldati, arrivò alla conclusione che Busby non era, semplicemente, un ottimista; la situazione non era completamente disperata. Era certamente molto brutta; questo bisognava ammetterlo, e nessuno lo negava; per quello che si sapeva, tutte le astronavi dell’Alta Guardia erano state distrutte. La Valchiria, il Nautilus e l’Adonis erano state distrutte, questo lo si sapeva per certo dai rapporti giunti nelle ultime ore di vita delle città, e con esse erano stati colpiti il commodoro Higgins, e la maggior parte dei suoi uomini. Non si era saputo nulla dell’Alta Marea… e questo non significava nulla; le poche informazioni che avevano erano composte, in parti uguali, di voci e di propaganda ufficiale della Federazione.
La media Guardia doveva essere riuscita a salvare qualcuno dei suoi apparecchi; poteva averli nascosti nella boscaglia, ma l’utilità, in quel momento, di un traghetto stratosferico che esigeva delle postazioni di lancio fisse, era a dir poco discutibile. In quanto alle Forze di Superficie, almeno la metà dei componenti era stata catturata, o uccisa, nella Base dell’Isola Buchanan, e nelle guarnigioni più piccole del territorio. Mentre i soldati superstiti venivano rilasciati dai campi di concentramento, i soli ufficiali ancora liberi erano come il tenente Busby, cioè coloro che erano stati impegnati in qualche servizio distaccato nel momento in cui era venuto l’attacco. L’unità di Busby aveva formato il personale di una postazione radar, sufficientemente lontana da Nuova Londra; il tenente era riuscito a salvare la sua unità abbandonando la postazione, che ormai era stata inutile.
Il governo civile della giovanissima repubblica era sparito, naturalmente; quasi tutti i suoi esponenti erano stati catturati. Il comando organizzato delle forze armate aveva a sua volta cessato di agire; lo stato maggiore al completo, e tutti gli alti gradi dell’organizzazione militare, erano stati catturati durante l’attacco iniziale. Questo sollevava una questione che aveva incuriosito, e reso perplesso, Don; Busby non agiva come se i suoi generali comandanti fossero stati assenti; continuava a comportarsi come se egli fosse stato sempre il comandante di un’unità di un’organizzazione militare attiva, con compiti e funzioni chiaramente definiti. Lo spirito di corpo era alto, tra i suoi uomini; tutti parevano aspettarsi mesi, probabilmente anni, di guerra nella giungla, di guerriglia fatta di rapide sortite, imboscate e sabotaggi contro le forze della Federazione; ma tutti parevano ugualmente aspettarsi la vittoria finale, prima o poi, inevitabilmente, con assoluta certezza.
Uno dei soldati spiegò questo punto di vista in poche parole, durante una conversazione con Don:
«Non possono prenderci. Noi conosciamo queste paludi, queste giungle, questi acquitrini; loro no. Non saranno capaci di allontanarsi dieci miglia dalla città, anche con tutte le loro apparecchiature… imbarcazioni con radar e apparecchi di comunicazione e segnalazione. E di notte, noi ci infiltreremo tra le loro linee, e taglieremo loro la gola… per poi uscircene di nuovo, altrettanto silenziosamente, altrettanto imprendibili, per andare a fare colazione. Non permetteremo loro di sollevare una tonnellata di minerale radioattivo dalla superficie di questo pianeta, né una sola oncia di droghe. Renderemo il compito così costoso, in denari e vite umane, che alla fine verrà loro la nausea, non potranno più restare qui… e se ne torneranno a casa loro.»
Don annuì.
«Non ne potranno più di combattere la nebbia, come dice il tenente Busby.»
«Busby?»
«Uh? Il tenente Busby… il tuo comandante.»
«Ah, si chiama così? Non l’avevo afferrato.» Il viso di Don mostrò un vivo sbalordimento. Il soldato proseguì, «Vedi, sono arrivato qui soltanto stamattina. Sono stato lasciato libero, insieme agli altri mangiafango della Base, e stavo tornando a casa con la coda tra le gambe, sentendomi più giù del fango di palude. Mi sono fermato qui, sperando di ottenere un pasto da Wong, e ho trovato qui il tenente… Busby, hai detto?… con un reparto in funzione. Mi ha subito richiamato in servizio, prendendomi nel suo reparto. Sai cosa ti dico… mi ha ridato quella forza che mi era sparita, e mi ha restituito un po’ di spirito. Non trovi?»
Prima di andare a dormire, quella sera… nella stalla di Padron Wong, con due dozzine di soldati… Don aveva scoperto che quasi tutti i presenti non facevano parte del reparto originario di Busby, che era stato di soli cinque uomini, tutti tecnici elettronici. Gli altri erano degli sbandati, ora inquadrati in un plotone di guerriglia. Fino a quel momento, pochi erano armati; compensavano questa mancanza con la ricostruzione del loro morale, precipitato disastrosamente al momento dell’attacco federale.
Prima di addormentarsi, Don aveva preso una decisione. Sarebbe andato immediatamente a cercare il tenente Busby, ma decise che era una cattiva idea quella di disturbare l’ufficiale a un’ora così tarda della notte. Si svegliò, il mattino dopo, e scoprì che i soldati non c’erano più. Uscì di corsa, trovò la signora Wong intenta a dare da mangiare ai polli, e fu indirizzato da lei alla riva. Laggiù Busby stava organizzando lo spostamento del suo reparto. Don corse nella direzione dell’ufficiale.
«Tenente! Posso dirle una cosa?»
Busby si voltò, spazientito.
«Sono occupato.»
«Un momento solo… la prego!»
«Be’, parla.»