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Le stanze erano a malapena comode, secondo i criteri venusiani; per Don, naturalmente, erano caverne colossali. La ‘piscina’ che occupava il centro della stanza principale era profonda meno di un metro e ottanta, ai bordi, ed era abbastanza lunga perché lui potesse percorrerla con diverse bracciate, nuotando… cosa che egli fece prestissimo, con enorme piacere. L’acqua era pura almeno quanto il Mare che egli aveva appena attraversato era sporco, ed era stata riscaldata per lui, da quanto poté stabilire, nella misura esatta a garantire il massimo conforto per un essere a sangue caldo come un uomo.

Dopo essere disceso dallo scivolo che, naturalmente, sostituiva i trampolini nel regno dei draghi, e avere percorso un paio di volte la piscina, nuotando con calma e con piacere, Don si girò sulla schiena e galleggiò tranquillamente, osservando la nebbia artificiale che nascondeva il remoto soffitto. Questa, pensò, era certamente vita! Era il bagno migliore che lui faceva da… be’, da quel bagno splendido che aveva fatto a Nuova Chicago, nella sua stanza all’Hilton Caravanserraglio, e quanto tempo era passato, da allora? Cercò di ricordarlo, ma si trattava di un calcolo difficile. Don pensò, con una morsa improvvisa di nostalgia, che i suoi compagni di classe, nella fattoria-scuola, dovevano essersi diplomati già da molto tempo.

Riuscendo a stancarsi perfino di tutto quel lusso… come spesso accade agli esseri umani… uscì dalla piscina, poi prese i suoi vestiti, e cercò di togliere le vecchie incrostazioni di fango, facendo del suo meglio per rimediare a un accumularsi di fango che era avvenuto nel corso di mesi e mesi; durante il lavoro, desiderò con tutte le sue forze di avere del detersivo, o perfino il grigio sapone fatto in casa che veniva usato dagli agricoltori. Girò per la sala, scalzo, cercando qualche appiglio al quale appendere il suo bucato. Nel ‘minuscolo’ soggiorno privato, egli si fermò bruscamente.

La cena era pronta. Qualcuno aveva sistemato un tavolo per lui, completo di elegante tappeto verde… un tavolino da gioco, notò, con inciso il nome del locale al quale era appartenuto; lo stesso nome era ripetuto sotto le sedie che erano accostate al tavolo, e che Don spostò, pensieroso, per controllare.

Il tavolo era stato apparecchiato secondo le abitudini umane. Certo, la minestra era nella tazza del caffè, e il piatto della minestra conteneva il caffè, ma Don non era dell’idea di cavillare su certe piccolezze… minestra e caffè erano entrambi caldi. Ed era caldo anche il toast fatto di pane, e le uova fritte.

Don stese gli indumenti bagnati sul pavimento caldo, a piastrelle, e li ‘stirò’ in fretta con la mano, poi scostò la sedia, sedette, e si accinse a cenare.

«Come diceva sempre lei, capitano,» mormorò, «Non c’è mai andata così bene.»

C’era un materasso di gomma, sul pavimento di un altro reparto della stessa stanza; Don non ebbe bisogno di controllare, per vedere che si trattava della dotazione dei Verdi, tipo per ufficiali. C’era solo il materasso; mancava il telaio, mancava la rete, e mancavano le lenzuola, ma fondamentalmente quelle erano aggiunte non essenziali; un vero giaciglio era fatto di un buon materasso, e non c’era bisogno d’altro. Sapendo perfettamente che non sarebbe stato disturbato in alcun modo, e sapendo inoltre che nessuno si aspettava che lui si mostrasse fino a quando non gli avrebbe fatto comodo, si distese mollemente su quello splendido materasso, subito dopo la cena. Era stanco, stanchissimo, se ne rendeva conto ora, e certamente aveva molte cose sulle quali riflettere.

La ricomparsa di Sir Isaac aveva fatto emergere ricordi sepolti, che erano ritornati, vitali e imperiosi. Era passato tanto tempo; ma ora se ne rendeva conto… era come se fosse stato ieri. La sua esperienza militare lo aveva maturato, lo aveva cambiato… ma giorno dopo giorno, era stato come un sogno, qualcosa che era passato rapidamente, confusamente. Dopo la sua evasione dal campo di concentramento, era come se fosse trascorso un pomeriggio… mentre quel che era accaduto prima della svolta totale della sua vita riemergeva alla superficie della sua mente, e non era possibile fermarlo.

Ripensò alla sua scuola, e si domandò dove fosse in quel momento il suo vecchio compagno di camera. Si era arruolato anche lui… ma dall’altra parte? Sperava di no, con tutto il cuore… eppure sapeva, in cuor suo, che Jack si era certamente arruolato. Lui aveva fatto quel che doveva fare, giudicando dal suo punto di vista. Jack non era suo nemico, non poteva esserlo. Caro, vecchio Jack! Sperò, con tutte le sue forze, che i folli, imprevedibili destini della guerra non li portassero mai faccia a faccia.

Si chiese se Sonno l’avrebbe ancora riconosciuto. Chissà se il cavallo si ricordava ancora di lui.

E rivide il viso del Vecchio Charlie, che improvvisamente perdeva ogni lineamento umano, cancellato dalla vampata di un’arma termica… e di nuovo, provò una violenta ondata di collera, a quel pensiero. Ebbene, lui aveva ripagato i Verdi per la morte del Vecchio Charlie… aveva saldato il debito, e aveva aggiunto gli interessi.

Strano, come diventi facile uccidere, pensò Don. Ma era la guerra. La morte non aveva più significato. Morivano a migliaia, e ciascuno non aveva i lineamenti di un uomo. Era un nemico. Quanti ne morivano, in guerra.

Provò ancora il dolore del primo momento, per la perdita di Isobel. In cuor suo, temeva che la ragazza fosse morta nel primo attacco. Ormai era passato troppo tempo, per sperare ancora.

E finalmente rifletté sugli ordini venuti direttamente dal quartier generale, che lo avevano mandato da Sir Isaac. Era bizzarro. Laggiù c’era veramente un lavoro militare da svolgere? Oppure Sir Isaac aveva semplicemente scoperto dove lui si trovava, e l’aveva mandato a prendere? Quest’ultima ipotesi pareva la più probabile; il quartier generale delle forze di resistenza avrebbe certamente considerato una richiesta da parte di un principe dell’Uovo come un ‘obbligo’ militare, essendo i draghi così importanti per il buon andamento delle operazioni.

Si grattò la cicatrice sul braccio sinistro, e si addormentò.

La colazione fu soddisfacente come la cena. Questa volta, non ci fu alcun mistero intorno alla sua apparizione; fu portata con un carrello a ruote da una giovane dragonessa… Don capì che era giovane, perché l’ultimo paio di peduncoli era ancora rudimentale, e gli occhi non erano ancora ‘sbocciati’; non doveva essere nata da più di un secolo venusiano. Don sibilò un ringraziamento; lei rispose, educatamente, e se ne andò.

Don si domandò se Sir Isaac non impiegasse dei servitori umani; la cucina lo rendeva sconcertato… i draghi, semplicemente, non sanno cucinare. Essi preferiscono consumare crudo il loro cibo, con un po’ del fango del fondo ancora attaccato, per dare un po’ d’aroma. Riusciva a immaginare un drago intento a bollire un uovo per l’esatto periodo di tempo necessario, una volta saputo esattamente quanto fosse questo tempo; ma la sua immaginazione rifiutava di credere a qualcosa di più complicato. L’arte umana di cucinare è un’arte esoterica, e strettamente razziale.

La sua perplessità non gli impedì di apprezzare nella giusta misura l’eccellente colazione.

Dopo colazione, con il morale — e la fiducia in se stesso — sensibilmente aumentati dal fatto d’indossare degli indumenti lavati, e ragionevolmente puliti, trovò la forza per affrontare la prova di incontrare la numerosa famiglia di Sir Isaac. Avvezzo com’era a fungere da interprete di ‘vera lingua’, la prospettiva dell’incredibile dose di cerimonie e formalità, nella quale ci si aspettava da lui di recitare una parte centrale e creativa, con molta immaginazione e molto talento, lo rendeva sensibilmente nervoso. Sperò di poter condurre la prova in maniera che avrebbe riflesso onore sui suoi genitori, e non imbarazzo sul suo ospite.