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Si era raso frettolosamente, e non certo in maniera perfetta, non essendoci specchi nell’appartamento, ed era già pronto a uscire, quando udì chiamare il suo nome. La cosa lo sorprese, dato che lui sapeva che non avrebbe dovuto essere disturbato… essendo un ospite appena arrivato… anche se avesse deciso di restare nelle sue stanze per una settimana, o per un mese… o per sempre.

Sir Isaac entrò, come una benevola montagna in movimento.

«Mio caro ragazzo, vuole perdonare un vecchio frettoloso, se da questo momento la tratterò con l’informalità usata comunemente soltanto con i propri figli?»

«Be’, ma certo, Sir Isaac.» Don era del tutto sconcertato. Se Sir Isaac era un drago frettoloso, certamente era il primo della storia.

«Come il padre e la madre l’uovo, come l’uovo il padre e la Madre,» sibilò Sir Isaac, passando immediatamente a una familiarità completa. «Se sei riposato e rinfrescato, allora ti prego di venire con me.»

Don obbedì, sorpreso dalla piega che gli avvenimenti avevano assunto; rifletté che dovevano averlo tenuto sotto osservazione; l’entrata di Sir Isaac era stata troppo puntuale, perché si trattasse di un caso. Il vecchio drago lo guidò fuori dell’appartamento, lo precedette lungo un passaggio interno, e lo fece entrare in un salone che un drago avrebbe considerato, probabilmente, un salotto intimo; era largo meno di trenta metri.

Don decise che doveva trattarsi dello studio di Sir Isaac, perché c’erano innumerevoli rotoli di libri-nastro disposti in grandi scaffali alle pareti, e c’era anche il ripiano girevole, sistemato all’altezza dei tentacoli prensili. Sopra uno scaffale, al centro di una parete, c’era quello che Don immaginò fosse un affresco, ma si trattava di un guazzabuglio incomprensibile, per il giovane; i tre colori, nello spettro degli infrarossi, che i draghi vedono e noi non possiamo vedere, producevano anche in questa circostanza l’usuale confusione. Ripensandoci, Don decise che il dipinto poteva anche non avere alcun significato; dopotutto, gran parte dell’arte umana non sembra significare nulla.

Ma la cosa che egli notò maggiormente, e sulla quale meditò, fu che la stanza conteneva non una, ma due sedie adatte agli esseri umani.

Sir Isaac lo invitò a sedersi. Don obbedì, e scoprì che la sedia era un mobile del più perfezionato tipo di lusso, a elaborazione interna, e adattabile; la sedia valutò immediatamente le sue dimensioni, e la forma del suo corpo, e si adattò perfettamente a lui. Don scoprì immediatamente a chi era destinata l’altra sedia di tipo terrestre; un uomo entrò a grandi passi nella stanza… un uomo sulla cinquantina, magro e severo, con una corona di capelli grigi e arruffati intorno a un cranio calvo. L’uomo aveva dei modi bruschi, e suggeriva l’idea che i suoi ordini venissero sempre obbediti.

«Buongiorno, signori!» Si rivolse a Don. «Lei è Don Harvey. Io mi chiamo Phipps… Montgomery Phipps.» Lo disse come se fosse stata una spiegazione sufficiente. «Lei è cresciuto un bel po’. L’ultima volta che l’ho vista, le ho dato una bella sculacciata, perché mi aveva morso il pollice.»

Don si sentì irritato, da quell’atteggiamento da sergente maggiore che l’uomo aveva assunto. Immaginò che si trattasse di qualche conoscente dei suoi genitori, che lui aveva conosciuto nelle vaghe, indistinte profondità dell’infanzia, ma non lo riconosceva, né riusciva a ricordare in quale occasione avesse potuto incontrarlo.

«Avevo qualche motivo per morderle il pollice?» domandò.

«Eh?» L’uomo scoppiò improvvisamente in un’aspra risata. «Suppongo che si tratti di una questione di opinioni. Ma siamo pari; io le ho dato una bella strigliata.» Si rivolse a Sir Isaac. «Verrà anche Malath?»

«Mi ha detto che avrebbe compiuto questo sforzo. Dovrebbe giungere tra breve.»

Phipps affondò comodamente sull’altra sedia, e cominciò a tamburellare sul bracciolo con il pollice e l’indice.

«Be’, immagino che dovremo aspettare, anche se non vedo alcun bisogno della sua partecipazione a questa riunione. Ormai abbiamo tardato anche troppo… avremmo dovuto tenere questa riunione ieri sera.»

Sir Isaac riuscì a trarre, miracolosamente, un’intonazione sconvolta dal suo voder.

«Ieri sera? Con un ospite appena arrivato?» Il drago era sinceramente scandalizzato, e lo dimostrava.

Phipps si strinse nelle spalle.

«Lasciamo perdere.» Si rivolse a Don. «Le è piaciuta la cena, figliolo?»

«Eccellente.»

«L’ha preparata mia moglie. Adesso è al lavoro nel laboratorio, ma la conoscerà più tardi. È un vero genio della chimica… dentro e fuori la cucina.»

«Sarei lieto di ringraziarla,» disse Don, con sincerità. «Lei ha parlato di un laboratorio?»

«Eh? Sì, sì… un posto fantastico. Lo vedrà più tardi. Ci lavorano alcuni dei più grandi talenti di Venere. Ciò che la Federazione perde, noi lo guadagnamo.»

Don riuscì a trattenere le domande che erano balzate improvvisamente alle sue labbra; qualcuno… qualcosa… stava arrivando. Don spalancò gli occhi, quando vide che si trattava di una ‘carrozzella’ da marziano… l’ambiente personale mobile senza il quale un marziano non poteva sopravvivere, né sulla Terra, né su Venere. Il piccolo veicolo si avvicinò, ed entrò nel circolo; la figura che si trovava all’interno si issò faticosamente in posizione seduta, con l’aiuto del suo esoscheletro artificiale a motore, cercò debolmente di allargare le pseudo-ali e parlò, con la sua voce pigolante, sottile e stanca amplificata da un microfono.

«Malath da Thon vi saluta, amici miei.»

Phipps si alzò in piedi.

«Malath, vecchio mio, dovresti essere nel tuo serbatoio. Ti ucciderai, facendo tutti questi sforzi.»

«Vivrò fino a quando sarà necessario.»

«Ecco il giovane Harvey. Somiglia molto a suo padre, no?»

Sir Isaac, scandalizzato da una disinvoltura simile, intervenne a quel punto, con una presentazione formale ed elaborata. Don cercò febbrilmente di ricordare qualcosa di più di due parole di Alto Marziano, rinunciò, e si accontentò di dire:

«Lieto di conoscerla, signore.»

«L’onore è mio,» pigolò la voce stanca del marziano. «’Un alto padre getta una lunga ombra’.»

Don si chiese cosa avrebbe dovuto rispondere, pensando che la rozza mancanza di buone maniere dei vieni-sopra aveva i suoi lati buoni. Phipps intervenne, dicendo:

«Vediamo di metterci al lavoro, prima che Malath si consumi completamente. Sir Isaac?»

«Molto bene. Donald, tu sai di essere il benvenuto nella mia casa.»

«Uh… be’, sì, Sir Isaac, grazie.»

«Tu sai che io ti ho esortato a farmi visita, prima di sapere qualcosa di più, sul tuo conto, della tua discendenza e del tuo grande spirito.»

«Sì, signore, lei mi ha chiesto di venire a trovarla. E ho cercato di farlo. L’ho cercato davvero… ma non sapevo dove lei fosse atterrato. Cominciavo a organizzarmi, per fare qualche piccola indagine, quando i Verdi sono atterrati. Ne sono enormemente dispiaciuto.» Don si sentiva vagamente a disagio, sapendo che aveva rimandato, semplicemente, la questione fino al momento in cui avrebbe avuto un favore da chiedere.

«E io ho cercato di trovarti, Donald… e sono stato colto dalla medesima sfortuna. Recentemente, grazie alle voci che vengono portate dalla nebbia, ho finalmente scoperto dove ti trovavi e cosa stavi facendo.» Sir Isaac fece una pausa, come se trovasse difficile la scelta delle parole. «Sapendo che questa casa è la tua casa, sapendo che tu eri il benvenuto in ogni caso, potrai mai perdonarmi, quando scoprirai di essere stato chiamato anche per un motivo estremamente pratico?»

Don decise che questo richiedeva l’uso della ‘vera lingua’.

«’Come possono gli occhi offendere la coda? O il padre offendere il figlio?’ Che posso fare per aiutarla, Sir Isaac? Avevo già intuito che stava accadendo qualcosa.»