La marchesa stessa volle accompagnare la pretessa nella stanza che le aveva destinata nel suo stesso appartamento, e si fermò a discorrere alquanto con lei dopo aver posato il lume su un tavolo accanto al quale le due donne sedettero. Ma la marchesa non si era accorta che mentre accompagnava la pretessa era stata seguita dal suo minuscolo gatto nero, un gatto piccolo di razza ma anche, e forse più, perché doveva aver sofferto la fame nei suoi primi giorni di vita. La marchesa lo aveva trovato al margine di un bosco durante una delle sue passeggiate a cavallo verso la fine di ottobre, nascosto sotto le foglie secche d'un albero, dove cercava evidentemente di scaldarsi. Un gatto sperduto, o fuggito da qualche pericolo. Se l'era portato a casa e l'aveva chiamato Mirò. In quei tre mesi che aveva trascorso al castello aveva mangiato moltissimo, ma era cresciuto assai poco, almeno di peso. Era invece cresciuto molto nelle sue propensioni per la vita di società: vale a dire non sopportava di essere ignorato quando c'erano degli ospiti. In questo caso poi l'ospite era un gatto, e grosso per giunta, che ora se ne stava pigramente appallottolato davanti al camino.
Mirò gli fece alcuni giri attorno valutandone il peso, il sesso, l'età e infine l'intelligenza. Stabilito che era del suo stesso sesso, e che quindi erano subito da escludersi certi interessi, stabilito che doveva essere più vecchio di lui e quindi più sapiente, stabilito che era più grosso e quindi più importante, restava da provarne l'intelligenza. E su questo punto Mirò decise di sfidare l'avversario.
Fece alcuni assaggi fingendo noncuranza, si molleggiò sulla linea della schiena, prese la rincorsa e finì a piedi fermi scivolando sul pavimento; ripeté l'esercizio in senso inverso andandosi a fermare proprio a pochi centimetri dai baffi del rivale che fu costretto ad aprire gli occhi già quasi chiusi nel sonno; allora giudicò che fosse venuto il momento di annichilire il grassone con le sue prove di abilità. Saltò sul tavolo, finse di gettarsi giù e s'aggrappò al bordo con una delle zampe anteriori, si spenzolò nel vuoto oscillando, ritornò di slancio sul tavolo e ripeté l'esercizio, si gettò a terra e fece una capriola, rimbalzò sul tavolo, prese la rincorsa verso il lume e si fermò a pochi centimetri, poi si gettò di sotto e riprese ad oscillare appeso ad una sola zampa. Intanto il grassone, sempre immobile davanti al camino, anziché raccogliere la provocazione, dopo averlo guardato senza interesse per un po', volse la testa dall'altra parte e si mise a dormire. Quello che accadde allora si spiega solo con una logica tipica del gatto nevrotico. Mirò rimase ad oscillare ancora un poco, appena il tempo di vincere la perplessità a cui l'aveva indotto l'atteggiamento dell'avversario, poi fece un lungo balzo ben aggiustato e giunse ad unghie sfoderate sulla schiena del dormiente. Il quale si svegliò di scatto stridendo, sbatté a terra Mirò e ve lo tenne inchiodato con una zampa. Riacquistata la calma, stava meditando come punire l'importuno quando la marchesa, che si era precipitata di corsa, gli tolse Mirò di sotto le zampe e lo portò in salvo.
- Vi chiedo scusa, signora, - disse alla pretessa; - è un gatto un po' complessato perché ha sofferto molto da piccolo. - E le due donne ripresero la loro conversazione, mentre Mirò, più avvilito che mai, andava a recuperare la dignità perduta appollaiandosi in una coppa d'argento cesellato in cui la marchesa soleva, nell'estate, tenere i fiori del gelsomino per profumare la stanza.
- Vedete, marchesa, non vi chiederei questo favore se la "Fin du monde" non fosse così isolata da rendere impossibile ad uno studioso di quel genere ogni specie di attività ed ogni contatto col mondo. Vi rendete conto che cosa vuol dire lasciare la scuola di Salerno nel fior degli anni per un sospetto di eresia? e finire in mezzo a queste montagne? - Me ne rendo conto, non dubitate, - rispose la marchesa, - e vi ripeto che non c'è nessun problema. Il castello è grande e possiamo senza alcuno scomodo ospitare questo giovane studioso: anzi sarà un piacere per noi conoscerlo e conversare con lui. Quanto al sospetto di eresia, non preoccupatevi: gli abati che avete visto girare per questo castello hanno altro a cui pensare...
- Allora siamo intese, marchesa: quando domani monsignor Venafro mi accompagnerà a casa, condurrà qui messer Goffredo da Salerno.
- E sarà il benvenuto, non dubitate, - rispose la marchesa.
Il giorno dopo, nelle prime ore del pomeriggio, Venafro entrava nella corte di ritorno dalla "Fin du monde" a cavallo del suo bel Rabano e con la solita slitta legata ai finimenti. La marchesa stessa, avvertita dai servi, scese nella corte a riceverlo. Nella slitta sedeva un uomo di mezz'età, dal volto bello, ricoperto in parte da una folta barba; lisci capelli castani ricoprivano parte della fronte sfuggendo al pesante cappuccio del mantello. Si scoprì il capo di fronte alla marchesa e le baciò in silenzio la mano. I servi intanto scaricavano una pesantissima cesta piena di libri. Erano i libri su cui Goffredo da Salerno conduceva i suoi studi. Ma alla prima cesta ne seguì un'altra, ancora più grande e ancora più pesante.
- Questo, - disse Venafro, - è un dono della pretessa. Un bellissimo dono, di cui son certo che tutti noi godremo. - Così dicendo toglieva la pezza di tela che copriva la cesta. Agli occhi dei presenti apparvero bellissimi pezzi degli scacchi, torri, alfieri, cavalli e tutto l'occorrente, scolpiti in prezioso legno d'ebano e di rosa, proprio come la marchesa li aveva desiderati.
- Ma sono splendidi, Venafro! - gridò la marchesa coprendosi con le mani la bocca quasi a soffocare la gioia e lo stupore; e poi andava toccando ed estraendo dalla cesta i pezzi, che erano di bellissima fattura e di grandi dimensioni, raggiungendo ognuno il mezzo metro d'altezza.
- La pretessa ci ha fatto uno splendido dono, Venafro! come potremo mai sdebitarci con lei? - Ecco, veramente, madonna... c'è un'altra cosa che non avete ancora visto e che la pretessa vi prega di accettare e tenere con voi. Se la "Fin du monde" non fosse troppo solitaria, l'avrebbe tenuto con lei, lassù. Ma teme che sarebbe cresciuto troppo selvatico. - Mentre parlava aveva tratto fuori dalla slitta un fagotto avvolto in uno scialle e andava svolgendolo delicatamente. La marchesa ebbe un sussulto: - Ma Venafro! questo è un bambino! - Si, signora, è un bambino - e dall'apertura dello scialle usciva intanto una testa bionda che guardava curiosamente intorno, poi una manina che s'allungava cautamente ad afferrare alcuni peli dei baffi di Venafro e li tirava con tutta forza.
- Si chiama Cicco, signora. Nemmeno la pretessa sa chi sia. Dovrebbe avere dai due ai tre anni: gliel'hanno portato che era piccolissimo.