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Al momento di andare a tavola, con abile diplomazia madonna Maravì intrattenne messer Goffredo sulle bellezze di Salerno e del suo golfo, ch'ella ben conosceva poiché veniva dalla corte angioina di Napoli, ed ottenne così di avvicinarsi al tavolo con lui e sedersi accanto a lui.

Ognuno sa quanto è importante il posto a tavola nelle faccende d'amore. Nell'allegria generale, madonna Maravì era la più allegra.

Il giorno dopo aveva il raffreddore. Ma chi pensasse che madonna Maravì fosse scontenta di sentire mal di capo e l'impulso di tossire, si sbaglierebbe di molto. Si vestì d'un abito di velluto nero, tutto accollato e che l'intera persona fasciava fino ai fianchi perdendosi poi in molle ampiezza fluttuante. Si sbiancò accuratamente le guance con polvere di creta, annodò i capelli più in basso sulla nuca e assunse un'aria languida e sofferente. Non sapremo mai che cosa dicesse a messer Goffredo mentre sedeva accanto a lui sulla breve panca nel vano della finestra, là nella sala degli scacchi. Parlava forse della sua malattia. Ser Goffredo l'ascoltava compunto e comprensivo e forse, così sembrava ma poteva essere un'impressione sbagliata, anche un pochino imbarazzato. Non era un'impressione comunque che messer Goffredo si restringesse sempre più sulla breve panca e sempre più perplesso guardasse il pavimento. Qualche giorno dopo madonna Maravì era ancora più malata.

- Il vostro raffreddore peggiora, Maravì, - le disse la marchesa vedendola entrare in quella stessa sala degli scacchi, deserta in quel momento se si tolga la marchesa che sedeva ricamando accanto alla finestra. Il raffreddore, come ognuno sa, è una malattia dell'anima, e madonna Maravì era molto malata, nell'anima. Lo dicevano chiaramente gli occhi rossi e un po' gonfi, le labbra screpolate e l'acconciatura trascurata. La battaglia per messer Goffredo era perduta. Quando il maestro aveva capito l'intenzione sottile della damigella - e ciò era accaduto assai presto - si era fatto più sfuggente, anche perché era ormai assorbito dal problema del duca Franchino, il quale si era finalmente deciso ad aprirgli il suo cuore.

- Non potete costringere una persona ad amare, le diceva pacatamente la marchesa. - O ama, o non ama. È come il sole: o c'è, o non c'è, ed è nuvolo.

- Ma ci vorrebbe così poco, - si ostinava la damigella, - che cosa gli costa? Si starebbe così bene... e non se ne pentirebbe, ne sono sicura. E invece che cosa fa? Mi sfugge, come se avesse paura di me. - E si asciugava gli occhi e il naso con un bel fazzoletto ricamato. Ecco vedete, madonna, - diceva spalancando la finestra e sporgendosi fuori, - vedete, eccolo là che passeggia con gli abati, a tal punto mi disprezza che preferisce la compagnia di quelli... - e mentre la marchesa si affacciava a sua volta alla finestra e diceva: - Ma siete sicura, Maravì, che sia proprio lui? Madonna Maravì in un impeto di sdegno aveva afferrato una torre degli scacchi e l'aveva scagliata furiosamente dalla finestra. L'uomo, colpito, cadde e rimase immobile. In quel momento si udì sulla porta della stanza la voce di ser Goffredo che diceva al duca: - Effettivamente una difficoltà c'è, monsignore. Qui non abbiamo scimmie. - E mentre il duca obiettava: - E gli orsi? Un intestino d'orso non potrebbe andare ugualmente bene? madonna Maravì si voltò di scatto e rimase senza fiato.

- Avete sbagliato persona, Maravì, - diceva la marchesa sporgendosi dalla finestra. - Se la vista non mi inganna avete colpito l'abate Foscolo.

Il giorno seguente questo nuovo lutto che così crudelmente andava ad aggiungersi alla fatale serie che già aveva colpito il castello, la marchesa sedeva con la damigella a quella stessa finestra e diceva: - Vedete, Maravì, l'amore è un rapporto, non un possesso. E un rapporto è reciproco e libero, non si impone. Né si può pretendere che duri nel tempo: può durare oppure essere brevissimo. Ma nel momento in cui si attua realizza la libertà di tutti e due gli amanti. Il possesso invece dura anche tutta la vita, ma uno dei due è schiavo. - E dopo una pausa soggiunse: - Vedete quelle orme che si perdono verso la valle? sono di qualcuno che se n'è andato. Ma potrebbe anche tornare. E se torna, è perché lo vuole. - Così dicendo la marchesa prese un grappolo d'uva dolcissimo e appassito da un cestino di frutta e cominciò a piluccarlo porgendolo contemporaneamente a madonna Maravì. Mentre questa, asciugandosi gli occhi, allungava dubitosa la mano alla dolce leccornia, arrivò velocissimo come un piccolo topo il piccolissimo Cicco e altrettanto velocemente prese a piluccare dal grosso grappolo succoso i più succosi chicchi e i più maturi. E per raggiungerli meglio si arrampicò in grembo alla marchesa. Mirò, dopo aver dato una sbirciatina, si mise a sonnecchiare. L'uva, ai gatti, non è mai piaciuta.

Messer Favonio

E poi venne il favonio che spezza il ghiaccio atroce in un giocoso alternarsi di vento e primavera e desta gli animali dal sonno invernale e li fa uscire dal chiuso come cuccioli ebbri in cerca di sole. Nessuno se l'aspettava, nessuno l'aveva previsto. Marzo era incominciato tra nebbia e gelo. Ma, un mattino, il favonio era arrivato. Nebbia e gelo scomparvero, le grondaie del castello sgocciolarono allegramente la vecchia neve dei tetti, la corte divenne un impasto di fango e neve fondente. Il cielo era di un tenero azzurro solcato di strisce bianche e i capelli della marchesa, quando s'affacciò alla finestra, furono investiti da un'ondata d'aria tiepida e molle.

- È il favonio, - disse sorridendo, e issò la bella persona a sedere sul davanzale della finestra. Venafro, che giungeva a cavallo da chissà dove, vide la sua bianca camicia sventolare nell'aria, e sorrise.

In quel momento Cicco correva piangendo nella corte incontro a Venafro, e indicava singhiozzando un punto del tetto. Venafro lo prese in braccio e fissò lo sguardo seguendo il dito del bambino; seguì contrafforti, guglie e grondaie, e scorse, infine, una piccola sagoma nera che si muoveva cautamente tra le lastre di pietra del tetto.

Saliva e scendeva, silenziosa e circospetta in cerca di qualcosa, in traccia di qualcuno.

La tragedia nella vita ha molte facce. Per Cicco aveva la faccia di un gatto traditore, che l'aveva abbandonato solo nel letto per andarsene in cerca di avventure amorose. A nulla valsero i panini di madonna Camilla, né l'uva appassita della bella marchesa. Cicco continuava a singhiozzare avvinghiato al collo di Venafro, il quale, imbarazzatissimo, non trovò di meglio che installare il bambino sul cavallo davanti a sé, e andare in direzione del bosco pietroso chiazzato di sole.

- Vedi, Cicco, è arrivato il favonio, ed è quasi primavera. I gatti vanno in amore; per questo Mirò gira per i tetti in cerca di una gatta.

Il bambino lo guardava con grandi occhi spalancati nel viso bagnato di lacrime.

- Anche gli uomini hanno bisogno d'amore quando soffia il favonio. Ma sono meno saggi dei gatti, e spesso non sanno trovarlo.

Il bambino non gli toglieva gli occhi dal viso, come se capisse.

- Invece Mirò troverà la sua gatta, non dubitare.

Poi scesero dal cavallo e si inoltrarono a piedi nel bosco. Ad un tratto Cicco liberò la sua mano da quella dell'uomo e corse verso un mucchietto di foglie di faggio accumulate dal vento. Si fermò a guardare chino, con le mani sulle ginocchia: il mucchio di foglie sussultava, tremolava, come se qualcosa si muovesse là sotto. Poi il bambino allungò una mano e cominciò a frugare tra le foglie.

All'improvviso qualcosa schizzò fuori dal mucchio verso il bambino.

Cicco fu svelto a serrare le braccia sul petto e si trovò tra le mani un animale dalla pelliccia folta e calda, che gli si agitava tra le braccia e allungava il muso fornito di denti aguzzi verso la sua faccia.

- Bene, Cicco, hai preso una marmotta! - disse Venafro; - e ora che ne farai? la marmotta non verrà mai a letto con te.