Ignat si strinse nelle spalle. Mi guardò, come in cerca di solidarietà, e bofonchiò: — È una discriminazione…
— Qui non sei negli Stati Uniti — ripeté il Capo, e la sua voce si fece insidiosamente gentile. — Sì, certo si tratta di una discriminazione, è sfruttamento di un dipendente nella violazione delle sue esigenze personali.
— E non potrei averlo io questo incarico? — chiese timidamente Garik.
L'atmosfera si surriscaldò. Che Garik nelle questioni amorose fosse un fiasco totale non era un segreto per nessuno. Qualcuno scoppiò a ridere.
— Igor', Garik, voi continuerete a cercare la vampira — disse il Capo, quasi avesse preso sul serio la proposta. — Lei ha bisogno di sangue. L'hanno fermata proprio all'ultimo momento, ora sta impazzendo per la fame e per l'eccitazione. Aspettatevi una vittima da un momento all'altro! Anton, tu e Ol'ga cercate il ragazzino.
Tutto chiaro.
Di nuovo l'incarico più insignificante e più inutile.
In città si preparava una catastrofe infernale, in città c'era una giovane, selvaggia, affamata vampira! E io dovevo cercare un ragazzino dotato di notevoli poteri magici…
— Abbiamo la sua autorizzazione?
— Sì, certo. — Il Capo aveva ignorato la mia timida mossa.
Ruotai su me stesso e, in segno di protesta, uscii dal Crepuscolo. Il mondo sussultò, riempiendosi di colori e di suoni. Spuntai come un pezzo di idiota in mezzo a un giardinetto. A un osservatore esterno sarebbe apparso oltremodo strano. Le tracce erano sparite… e io me ne stavo in piedi su un monticello di neve, con intorno una distesa intatta.
È così che nascono i miti. Dalla nostra imprudenza, dai nostri nervi spezzati, da scherzi malriusciti e gesti esemplari.
— Niente di che — dissi, e avanzai con noncuranza verso il viale.
— Grazie… — mormorò una voce sommessa e tenera al mio orecchio.
— Di che, Ol'ga?
— Di esserti ricordato di me.
— Per te è davvero così importante eseguire l'incarico?
— Molto importante — rispose l'uccello dopo una breve pausa.
— Allora dovremo darci parecchio da fare.
Saltando sui monticelli di neve e sulle pietre — doveva esserci stato un ghiacciaio lì, oppure qualcuno aveva giocato a tirare le pietre in giardino — mi diressi verso il viale.
— Hai del cognac? — chiese Ol'ga.
— Del cognac? Sì, ce l'ho.
— Buono?
— Cattivo non può essere, se è vero cognac.
La civetta ridacchiò. — Inviteresti allora una signora a bere del caffè e del cognac?
Già m'immaginavo una civetta che beve dal piattino il cognac e per poco non mi sbellicai dal ridere.
— Con piacere. Andiamo in taxi?
— Lei vuole scherzare, ragazzo! — replicò all'istante Ol'ga.
Già. Ma quando era stata intrappolata in quel corpo d'uccello? E questo non le impediva di leggere i libri?
— Esiste una cosa che si chiama televisore — bisbigliò l'uccello.
Tenebre e Luce! Ero certo che i miei pensieri fossero al sicuro!
— La telepatia più dozzinale può sostituire perfettamente un'esperienza di vita… anche una profonda esperienza di vita — proseguì maliziosa Ol'ga. — Anton, i tuoi pensieri sono imperscrutabili per me. E dopotutto sei il mio partner.
— Ma io sono così in generale… — Feci un gesto con la mano. Era sciocco negare l'evidenza. — E che facciamo col ragazzino? Ce ne infischiamo dell'incarico? Non è affatto serio…
— È serissimo! — replicò Ol'ga contrariata. — Anton, il Capo ha ammesso di essersi comportato in modo scorretto. Ed è stato indulgente con noi, conviene approfittarne. La vampira ha puntato il ragazzo, capisci? Per lei è come un panino che non ha finito di addentare, che le è stato tolto di bocca. Lui è appeso a un filo. Lei ora ha il potere di attirarlo in qualunque tana in qualunque angolo della città. Ma questo è un vantaggio anche per noi. Non c'è bisogno di cercare una tigre nella giungla quando si può legare un capretto in un campo.
— A Mosca questi capretti…
— Questo ragazzo è appeso a un filo. La vampira non ha esperienza. Stabilire un contatto con una nuova vittima è più difficile che non attirarne una vecchia. Credimi.
Sussultai, scacciando un sospetto idiota. Sollevai la mano per fermare un'auto e dissi cupo: — Ti credo. Ti credo ora e per sempre.
Capitolo 4
La civetta uscì dal Crepuscolo subito dopo di me. Spiccò il volo — per un istante percepii la lieve puntura dei suoi artigli — e si diresse verso il frigorifero.
— Devo sistemarti un trespolo? — chiesi, chiudendo a chiave la porta.
Vidi Ol'ga parlare per la prima volta. Il becco sussultava, mentre lei tirava fuori con uno sforzo evidente le parole. A dire il vero non capisco come un uccello possa essere in grado di parlare. Tanto più con voce umana.
— Non è il caso, altrimenti comincerò a deporre le uova.
Era chiaro che tentava di scherzare.
— Se ti ho offesa, perdonami — le dissi per ogni eventualità. — Sto cercando anch'io di vincere l'imbarazzo.
— Capisco. È naturale.
Ficcai la testa nel frigorifero e scovai qualcosa per uno spuntino. Formaggio, salame, cetriolini e funghi sotto sale… Chissà se si accompagnava bene il cetriolino sotto sale a un cognac invecchiato di quarant'anni. Forse avrebbero avvertito un reciproco senso di disagio. Lo stesso che avvertivo io con Ol'ga.
Presi il formaggio e il salame.
— Scusa, ma non ci sono limoni. — Comprendevo tutta l'assurdità di quella preparazione, eppure… — Però il cognac è buono.
La civetta taceva.
Dal cassetto scostato sotto il bar presi una bottiglia di Kutuzov.
— L'hai mai provato?
— È la nostra risposta al Napoleon? — La civetta fece una risatina. — No, non l'ho mai provato.
L'assurdità di quella situazione aumentava. Sciacquai due bicchieri da cognac e li posai sul tavolo. Fissai dubbioso quel pugno di penne bianche. E il becco corto, ricurvo.
— Non puoi bere dal bicchiere. Vuoi che ti porti un piattino?
— Voltati.
Ubbidii. Udii alle mie spalle un fruscio di penne. Poi un sibilo leggero, sgradevole, che rammentava il frusciare di una serpe o una fuoriuscita di gas da una bombola.
— Ol'ga, scusa, ma… — Mi voltai.
La civetta era sparita.
Già, mi aspettavo qualcosa del genere. Avevo sperato che potesse assumere sembianze femminili almeno di tanto in tanto. E mi ero figurato mentalmente un ritratto di Ol'ga, la donna prigioniera nel corpo di uccello che ancora rammentava l'insurrezione decabrista. Chissà perché me l'immaginavo come la principessina Lopuchina in fuga dal ballo. Solo un po' più vecchia, più seria, con lo sguardo pieno di saggezza e un po' emaciata…
Sullo sgabello sedeva una donna giovane, giovanissima. Che non dimostrava più di venticinque anni. Con i capelli tagliati cortissimi, da maschio, le guance nere di fumo, come fosse scampata a un incendio. Bella, i tratti del viso fini, aristocratici. Ma quella pelle che sembrava bruciata, quella pettinatura rozza, mostruosa…
I suoi abiti mi scioccarono del tutto. Sudici pantaloni militari degli anni Quaranta, giacca di ovatta imbottita aperta e, sotto, una maglietta grigia da ginnastica. Piedi nudi.
— Sono bella? — chiese la donna.
— Ebbene sì — risposi io. — La Luce e le Tenebre… Perché hai quest'aspetto?
— L'ultima volta che ho assunto sembianze umane risale a cinquantacinque anni fa.
Annuii.
— Capisco, ti hanno utilizzata quando c'era la guerra?