— Maksim! Maksim, aspetta!
Il passaggio dagli insulti alla supplica fu istantaneo. Elena gli si lanciò dietro, gli afferrò una mano, lo fissò negli occhi con uno sguardo pietoso e supplichevole.
— Scusami, scusami, mi sono presa un tale spavento! Scusami, ho detto un sacco di sciocchezze, Maksim!
Guardò la moglie, che aveva già perso tutta la sua aggressività, e si era arresa, disposta a tutto purché lui, stupido, depravato, vigliacco, non uscisse da quella porta. Possibile che sul suo viso fosse balenato qualcosa che aveva spaventato Elena ancora di più della sparatoria in cui si erano trovati quel giorno?
— Non ti lascio andare! Non ti lascio andare da nessuna parte! A quest'ora!
— Non mi succederà niente di male — disse dolcemente Maksim. — Non gridare, o sveglierai i bambini. Torno subito.
— Se non vuoi pensare a te, pensa almeno ai bambini! Pensa a me! — Poi Elena cambiò fulmineamente tattica. — E se hanno preso la targa della macchina? E se adesso vengono a cercare quella carogna? Che cosa faccio io?
— Non verrà nessuno. — Maksim in qualche modo sapeva che era la verità. — E se anche venissero, la porta è forte. A chi telefonare lo sai. Lasciami passare, Elena.
Sua moglie era immobile di traverso alla porta, con le braccia allargate, la testa sollevata, gli occhi socchiusi, come se si aspettasse uno schiaffo.
Maksim la baciò cautamente su una guancia e la scostò dalla soglia. Passò in anticamera, seguito da uno sguardo ormai completamente smarrito. Dalla camera della figlia veniva una musica sgradevole, pesante: non dormiva e aveva acceso lo stereo per non sentire le loro voci incattivite, la voce di Elena.
— Non farlo! — mormorò la moglie alle sue spalle, con tono implorante.
Maksim prese la giacca, controllando rapidamente che tutto fosse al suo posto nella tasca interna.
— Non ti importa niente di noi! — gridò Elena, ma già rassegnata, senza più speranze, come per forza di inerzia. La musica in camera di sua figlia aumentò di volume.
— Questo non è vero — disse calmo. — È proprio a voi che penso, invece. Vi proteggo.
Era già sceso di un piano — non aveva voluto aspettare l'ascensore — quando lo raggiunse il grido della moglie, del tutto inaspettato: a Elena non piaceva portare le loro discussioni fuori dalle mura domestiche e non si sarebbe mai messa a litigare sul pianerottolo.
— Faresti meglio ad amarci, invece di proteggerci!
Maksim si strinse nelle spalle e affrettò il passo.
Ecco, quello era il punto dove mi ero fermato quella sera d'inverno.
Era tutto uguale: l'androne deserto, il rumore delle macchine alle sue spalle, la debole luce dei lampioni. Solo che allora faceva molto più freddo. E tutto sembrava semplice e chiaro, un po' come può sembrare il mondo a un giovane agente di polizia americano che esca per il suo primo pattugliamento.
Difendere la legge. Perseguitare il Male. Proteggere gli innocenti.
Come sarebbe bello se le cose restassero per sempre così semplici e chiare, come a dodici anni, o a venti. Se nel mondo ci fossero davvero soltanto due colori: il nero e il bianco. Eppure anche il più onesto e ingenuo dei poliziotti americani, allevato nel culto dei roboanti ideali yankee, prima o poi capisce che per le strade che pattuglia non ci sono soltanto la Luce e le Tenebre. Ci sono anche gli accordi, i compromessi, i patti. Gli informatori, le trappole, le provocazioni. Prima o poi viene il momento di tradire gli amici, infilare un sacchettino di eroina nella tasca di qualcuno, picchiare sulle reni facendo attenzione a non lasciare segni.
E sempre in nome di quei semplicissimi principi.
Difendere la legge. Perseguitare il Male. Proteggere gli innocenti.
L'avevo dovuto capire anch'io.
Infilai lo stretto budello di mattoni, spostai col piede un foglio di giornale gettato ai piedi del muro. Proprio lì si era tramutato in cenere l'infelice vampiro, davvero infelice, perché colpevole soltanto di essersi innamorato. Non di una vampira, non di una donna, ma di una vittima, di un essere destinato a divenire cibo.
Ecco, lì avevo versato un po' di vodka dalla bottiglietta, bruciando il viso della donna che noi, i Guardiani della Notte, avevamo dato in pasto ai vampiri.
Come amano ripetere le Forze delle Tenebre: «Libertà!» E quante volte spieghiamo a noi stessi che la libertà ha dei limiti.
E tutto questo, probabilmente, è anche giusto. Almeno per quei rappresentanti della Luce e delle Tenebre che vivono semplicemente tra gli umani con poteri maggiori, ma con aspirazioni assolutamente identiche alle loro. Per coloro che hanno scelto di vivere secondo le regole, e non opponendosi a esse.
Ma basta soltanto uscire sul confine, sull'invisibile linea di confine dove stiamo noi delle Guardie, sulla linea che separa le Tenebre dalla Luce…
È la guerra. E la guerra è sempre criminale. Sempre, in tutti i tempi, sarà occasione non solo di eroismi e sacrifici, ma anche di tradimenti, vigliaccherie, colpi alle spalle. Evitare questi aspetti quando si combatte è semplicemente impossibile. Vorrebbe dire avere già perso prima di cominciare.
E poi che cos'è tutto questo, alla fin fine? Per che cosa vale la pena di combattere, per che cosa ho il diritto di combattere, quando vivo sul confine, a metà strada tra la Luce e le Tenebre? I miei vicini sono vampiri! E non hanno mai — per lo meno Kostja — non hanno mai ucciso nessuno. Sono persone piacevolissime dal punto di vista degli umani.
E, volendo considerare i loro comportamenti, sono molto più onesti del Capo o di Ol'ga.
Dov'è allora il confine? Dov'è la giustificazione? Dov'è il perdono? Non conosco la risposta. Non sono in grado di dire nulla, nemmeno a me stesso. Navigo armato dei vecchi ideali e dei vecchi dogmi soltanto per forza d'inerzia. Come possono combattere continuamente i miei compagni, gli agenti operativi della Guardia? Che spiegazioni danno ai loro atti? Anche questo non lo so. Ma le loro opinioni comunque non mi aiuterebbero. Qui ognuno deve fare da solo, come ci ricordano gli slogan delle Forze delle Tenebre.
E, cosa ancora più spiacevole, sentivo che se non avessi capito, se non fossi stato capace di scoprire quel confine, ero condannato. E non soltanto io. Sarebbe perita anche Svetlana. Slanciandosi in un disperato tentativo di salvare il Capo. Si sarebbe sfasciata tutta la struttura della Guardia moscovita.
Ero ancora lì, con un braccio appoggiato al sudicio muro di mattoni. Ricordavo, mordendomi le labbra e sforzandomi di trovare una risposta. Non c'erano risposte. Dunque era il destino.
Attraversando il tranquillo cortile dall'aria accogliente, arrivai al "casermone con le zampe". Il grattacielo sovietico suscitava un'intrinseca tristezza, del tutto ingiustificata, ma profonda. Lo stesso sentimento che mi capitava di provare vedendo dal treno villaggi abbandonati o silos semidistrutti. Un senso di inopportunità, come uno slancio troppo forte che finisce con un gran colpo nel vuoto…
— Zavulon — dissi — se mi senti…
Silenzio, il silenzio tipico di una notte moscovita: rumore di macchine, un po' di musica da una finestra e nessuno per la strada.
— Comunque non hai potuto calcolare tutto — continuai nel vuoto. — Non hai proprio potuto. La realtà ha sempre qualche diramazione inaspettata. Il futuro non è predeterminato. Lo sai. E lo so anch'io.
Attraversai la strada senza guardarmi attorno, senza fare attenzione alle macchine. Ero in missione, no?
Sfera di nascondimento!
Un tram tintinnò, frenando sulle rotaie. Le macchine ridussero la velocità per costeggiare il vuoto che mi circondava. Tutto smise di esistere… tranne l'edificio sul cui tetto avevamo combattuto tre mesi prima, l'oscurità, bagliori di energia, invisibile agli occhi degli umani.
E questa energia, che solo a pochi era dato di vedere, continuava a crescere.