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— E il vortice è ancora come prima… — esordii. Ma poi tacqui. L'avevo visto.

Davanti a noi, sopra un desolante casermone di otto piani, sullo sfondo del buio cielo nevoso, mulinava nera e lenta una tromba d'aria.

Non si poteva definire un vortice o un turbine. Proprio una tromba d'aria. Non si allungava da questo palazzo, ma da quello seguente, ancora nascosto. E a giudicare dall'angolatura del cono nero, doveva essersi generata dalla terra stessa.

— Diavolo… — bisbigliai.

— Non fare il menagramo…

— È di una trentina di metri…

— Trentadue. E continua a crescere.

Guardai affannosamente la spalla e scorsi Ol'ga. Era uscita dal Crepuscolo.

Vi è mai capitato di vedere un uccello spaventato? Spaventato proprio come una persona?

La civetta era tutta scompigliata. Possibile che delle penne potessero rizzarsi così? Gli occhi sfavillavano di una luce giallo ambrata.

La spalla della mia povera giacca si era ormai sfilacciata, e gli artigli continuavano a graffiare, come se intendessero raggiungere il corpo.

— Ol'ga!

Il'ja si voltò e annuì: — Guarda guarda… Il Capo dice che a Hiroshima il vortice era più basso.

La civetta sbatté le ali e si librò nell'aria silenziosamente, dolcemente. Alle mie spalle una donna lanciò un grido. Mi voltai e scorsi il suo viso sconvolto, lo sguardo stralunato che seguiva l'uccello.

— La cornacchia vola — disse sottovoce Il'ja, guardando di sottecchi la donna. La sua reazione fu assai più tempestiva della mia. Un istante dopo la fortuita testimone ci superò, borbottando scontenta qualcosa contro le stradine troppo anguste e coloro che amavano ostruirle.

— Cresce rapidamente? — chiesi, indicando la tromba d'aria.

— A sbalzi, ma ora si sta stabilizzando. Il Capo ha avvertito Ignat per tempo.

La civetta, disegnando un ampio cerchio intorno alla tromba d'aria, si abbassò e volò sopra di noi. Ol'ga aveva conservato una certa padronanza di sé, ma dopo la sua imprudente uscita dal Crepuscolo appariva turbata.

— E lui che cosa ha fatto?

— Ma niente… tranne che mostrarsi esageratamente soddisfatto di sé. Si è presentato ed è riuscito a scoprire la dimensione del vortice…

— Non capisco — dissi confuso. — Per raggiungere una simile dimensione dev'essere stato alimentato solo da un mago che voleva scatenare l'inferno…

— È questo che intendevo dire. Qualcuno ha cancellato le tracce di Ignat e l'ha alimentato. Qui…

Entrammo nel portone del palazzo che ci ostruiva la vista del turbine. La civetta all'ultimo momento ci seguì in volo. Guardai perplesso Il'ja, ma non dissi niente. Del resto era divenuto subito chiaro perché ci trovavamo qui.

In uno degli appartamenti al piano terra si era stabilito il nostro quartier generale operativo. La possente porta d'acciaio, sigillata nel mondo degli umani, nel Crepuscolo appariva spalancata. Il'ja, senza fermarsi, s'immerse nel Crepuscolo e lo attraversò, mentre io restai per qualche secondo occupato a sollevare la mia ombra. Poi lo seguii.

Un grande appartamento di quattro stanze, tutte assai confortevoli. Eppure rumoroso, caldo, pieno di fumo.

Qui si trovavano più di venti Altri, tra operativi e noi, topi d'ufficio. Al mio arrivo non badarono nemmeno, si limitarono a dare un'occhiata a Ol'ga. Capii che i vecchi collaboratori della Guardia la conoscevano, ma nessuno accennò a salutare la civetta bianca o a sorriderle. Ma che cosa aveva combinato?

— In camera da letto, il Capo è là — lanciò al mio indirizzo Il'ja, mentre svoltava in cucina dove tintinnavano i bicchieri. Forse stavano bevendo del tè, o forse qualcosa di più forte. Dopo aver guardato di sfuggita, mi convìnsi che avevo ragione. A Ignat versavano del cognac. Il nostro terrorista del sesso aveva l'aria completamente distrutta, a pezzi, non gli capitava da parecchio di fare un fiasco simile.

Passai oltre, bussai alla prima porta e sbirciai dentro.

Era la camera dei bambini. Su un lettino dormiva un bimbo di circa cinque anni e accanto, sul tappeto, i suoi genitori adolescenti. Era tutto chiaro. Avevano immerso i padroni dell'appartamento in un sonno pesante e dolce per non averli tra i piedi. Si sarebbe potuto mettere a soqquadro l'intero quartier generale nello spazio crepuscolare, ma a che sarebbe servito sprecare le energie?

Mi batterono una mano sulla spalla. Mi voltai: era Semën.

— Il Capo è di là — disse. — Dai, coraggio…

Pareva che tutti sapessero e mi stessero aspettando.

Non c'era nulla di più assurdo di un quartier generale operativo ubicato in un appartamento.

Sopra il tavolino del bagno, ingombro di cosmetici e sommerso di bigiotteria, stava appesa una sfera magica di dimensioni medie che trasmetteva l'immagine dall'alto del vortice. Accanto, su un puf sedeva Lena, il nostro operatore migliore, silenziosa e concentrata. Aveva gli occhi chiusi, ma alla mia comparsa alzò una mano in segno di saluto.

Va bene, era la solita storia. L'operatore della sfera vedeva lo spazio nel suo complesso, era impossibile sfuggirgli.

Sul letto stava semidisteso il Capo. Portava una vestaglia variopinta, morbide pantofole orientali e la tjubetejka, il tipico berretto usbeco. Il dolce fumo di un narghilè riempiva il locale. La civetta bianca si era posata davanti a lui. A giudicare da ciò che si vedeva, erano assorti in una conversazione muta.

Anche questo rientrava nella normalità. Nei momenti di particolare tensione il Capo tornava alle abitudini acquisite in Asia centrale. Aveva operato laggiù a cavallo tra il XIX e il XX secolo, dapprima sotto la falsa identità di Mufti, poi di capo dei guerriglieri antibolscevichi, quindi di commissario rosso e infine per dieci anni come segretario del comitato provinciale.

Davanti alla porta c'erano Danila e Farid. Erano sufficienti anche i miei poteri a individuare il purpureo scintillio dei bastoni magici nascosti nelle loro maniche.

Una procedura del tutto ordinaria. In simili momenti non si lasciava mai il quartier generale senza sorveglianza. Danila e Farid non erano tra i guerrieri più forti, ma erano esperti, e questo spesso contava assai di più della forza bruta.

Ma chi era l'Altro dalla fisionomia sconosciuta che si trovava nella stanza?

Sedeva in un angolo, accoccolato, modesto e insignificante. Magro come un chiodo, le guance incavate, i capelli neri tagliati corti come quelli di un militare, gli occhi grandi, tristi. Di età assolutamente indefinibile, di trenta come di trecento anni. Vestiti scuri. L'abito morbido e la camicia grigia erano in perfetta sintonia col suo aspetto. Un umano forse avrebbe scambiato lo sconosciuto per il membro di una setta di minoranza. E in questo avrebbe avuto ragione.

Era un mago nero. E per di più un mago di altissimo livello. Quando mi trapassò con lo sguardo, mi sentii come un guscio che s'incrina e comincia a piegarsi.

Senza volere feci un passo indietro. Ma il mago aveva già abbassato lo sguardo a dimostrazione che mi aveva sondato in modo incidentale, fuggevole.

— Boris Ignat'evič. — Sentii che la mia voce era quasi rauca.

Il Capo annuì seccamente, poi si voltò verso il mago nero. Questi subito fissò lo sguardo su di lui.

— Tira fuori l'amuleto — gli intimò il Capo.

La voce dell'agente delle Tenebre si fece sommessa e triste, come quella di un essere umano su cui si siano abbattute di colpo tutte le disgrazie del mondo. — Non faccio nulla che non sia consentito dal Patto…

— Neppure io. I miei collaboratori devono essere immuni dagli osservatori.

Ecco di che si trattava! Nel nostro quartier generale c'era un osservatore della parte delle Tenebre. Voleva dire che lì accanto era dislocato il quartier generale della Guardia del Giorno e che c'era anche laggiù qualcuno dei nostri.

Il mago nero infilò la mano nella tasca della giacca e tolse una medaglietta di osso appesa a una catenina di rame. Me la tese.