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Però prima era diverso. Non gli era mai capitato di incontrare quelle creature del demonio per due giorni di seguito: o stavano tutti uscendo dalle loro fetide tane o la sua vista era migliorata.

Ecco, anche adesso…

Maksim guardava la città dall'alto del suo nono piano e quello che vedeva non era il solito panorama notturno punteggiato di luci. Quello era per gli altri. L'umanità cieca e impotente. Lui vedeva un grumo di Tenebre che ondeggiava sulla terra. Non molto in alto, più o meno al livello di un decimo-undicesimo piano.

Maksim vedeva una nuova creatura delle Tenebre.

Come sempre. Come al solito. Ma perché così spesso, perché addirittura di seguito? Era già la terza! La terza nel giro di ventiquattr'ore!

Le Tenebre baluginavano, oscillavano, si muovevano. Le Tenebre vivevano.

E alle sue spalle Elena elencava i suoi peccati con voce stanca, offesa, infelice. Si era alzata, adesso, e si era avvicinata alla portafinestra, come se temesse che Maksim non l'avesse sentita. Bene, anzi, meglio così. Almeno non avrebbe svegliato i bambini, ammesso che si fossero addormentati. Per qualche motivo Maksim quella sera era assalito dal dubbio.

Se avesse davvero creduto in Dio, sul serio… Ma di quella debole fede che lo riscaldava dopo ogni azione di purificazione ormai non restava quasi nulla. Non poteva esistere Dio in un mondo dove il Male prosperava in quel modo.

Però se Dio fosse esistito, o se almeno nell'anima di Maksim l'osse rimasta una fede autentica, sarebbe caduto in ginocchio all'istante, sul cemento sporco e rappezzato, e avrebbe teso le braccia all'oscuro cielo notturno, al cielo dove perfino le stelle splendevano timide, velate di tristezza. Avrebbe gridato: "Perché? Perché, Signore? È un'impresa superiore alle mie forze, superiore a me stesso! Sollevami da questo compito, te ne prego, sollevami. Io non sono la persona giusta. Sono debole."

Non gridò. Non era stato lui a scegliersi quel fardello. Non poteva essere lui a toglierselo. Ardeva e splendeva davanti a lui una luce nera. Il nuovo tentacolo delle Tenebre.

— Lena, scusami. — Scostò la moglie, rientrò nella stanza. — Devo andare.

Lei si interruppe a metà di una parola e nei suoi occhi, in cui fino a quel momento c'erano stati solo risentimento e offesa, balenò lo spavento.

— Torno. — Maksim si diresse rapidamente verso la porta, sperando di evitare qualsiasi domanda.

— Maksim! Maksim, aspetta!

Il passaggio dagli insulti alla supplica fu istantaneo. Elena gli si lanciò dietro, gli afferrò una mano, lo fissò negli occhi con uno sguardo pietoso e supplichevole.

— Scusami, scusami, mi sono presa un tale spavento! Scusami, ho detto un sacco di sciocchezze, Maksim!

Guardò la moglie, che aveva già perso tutta la sua aggressività, e si era arresa, disposta a tutto purché lui, stupido, depravato, vigliacco, non uscisse da quella porta. Possibile che sul suo viso fosse balenato qualcosa che aveva spaventato Elena ancora di più della sparatoria in cui si erano trovati quel giorno?

— Non ti lascio andare! Non ti lascio andare da nessuna parte! A quest'ora!

— Non mi succederà niente di male — disse dolcemente Maksim. — Non gridare, o sveglierai i bambini. Torno subito.

— Se non vuoi pensare a te, pensa almeno ai bambini! Pensa a me! — Poi Elena cambiò fulmineamente tattica. — E se hanno preso la targa della macchina? E se adesso vengono a cercare quella carogna? Che cosa faccio io?

— Non verrà nessuno. — Maksim in qualche modo sapeva che era la verità. — E se anche venissero, la porta è forte. A chi telefonare lo sai. Lasciami passare, Elena.

Sua moglie era immobile di traverso alla porta, con le braccia allargate, la testa sollevata, gli occhi socchiusi, come se si aspettasse uno schiaffo.

Maksim la baciò cautamente su una guancia e la scostò dalla soglia. Passò in anticamera, seguito da uno sguardo ormai completamente smarrito. Dalla camera della figlia veniva una musica sgradevole, pesante: non dormiva e aveva acceso lo stereo per non sentire le loro voci incattivite, la voce di Elena.

— Non farlo! — mormorò la moglie alle sue spalle, con tono implorante.

Maksim prese la giacca, controllando rapidamente che tutto fosse al suo posto nella tasca interna.

— Non ti importa niente di noi! — gridò Elena, ma già rassegnata, senza più speranze, come per forza di inerzia. La musica in camera di sua figlia aumentò di volume.

— Questo non è vero — disse calmo. — È proprio a voi che penso, invece. Vi proteggo.

Era già sceso di un piano — non aveva voluto aspettare l'ascensore — quando lo raggiunse il grido della moglie, del tutto inaspettato: a Elena non piaceva portare le loro discussioni fuori dalle mura domestiche e non si sarebbe mai messa a litigare sul pianerottolo.

— Faresti meglio ad amarci, invece di proteggerci!

Maksim si strinse nelle spalle e affrettò il passo.

Ecco, quello era il punto dove mi ero fermato quella sera d'inverno.

Era tutto uguale: l'androne deserto, il rumore delle macchine alle sue spalle, la debole luce dei lampioni. Solo che allora faceva molto più freddo. E tutto sembrava semplice e chiaro, un po' come può sembrare il mondo a un giovane agente di polizia americano che esca per il suo primo pattugliamento.

Difendere la legge. Perseguitare il Male. Proteggere gli innocenti.

Come sarebbe bello se le cose restassero per sempre così semplici e chiare, come a dodici anni, o a venti. Se nel mondo ci fossero davvero soltanto due colori: il nero e il bianco. Eppure anche il più onesto e ingenuo dei poliziotti americani, allevato nel culto dei roboanti ideali yankee, prima o poi capisce che per le strade che pattuglia non ci sono soltanto la Luce e le Tenebre. Ci sono anche gli accordi, i compromessi, i patti. Gli informatori, le trappole, le provocazioni. Prima o poi viene il momento di tradire gli amici, infilare un sacchettino di eroina nella tasca di qualcuno, picchiare sulle reni facendo attenzione a non lasciare segni.

E sempre in nome di quei semplicissimi principi.

Difendere la legge. Perseguitare il Male. Proteggere gli innocenti.

L'avevo dovuto capire anch'io.

Infilai lo stretto budello di mattoni, spostai col piede un foglio di giornale gettato ai piedi del muro. Proprio lì si era tramutato in cenere l'infelice vampiro, davvero infelice, perché colpevole soltanto di essersi innamorato. Non di una vampira, non di una donna, ma di una vittima, di un essere destinato a divenire cibo.

Ecco, lì avevo versato un po' di vodka dalla bottiglietta, bruciando il viso della donna che noi, i Guardiani della Notte, avevamo dato in pasto ai vampiri.

Come amano ripetere le Forze delle Tenebre: «Libertà!» E quante volte spieghiamo a noi stessi che la libertà ha dei limiti.

E tutto questo, probabilmente, è anche giusto. Almeno per quei rappresentanti della Luce e delle Tenebre che vivono semplicemente tra gli umani con poteri maggiori, ma con aspirazioni assolutamente identiche alle loro. Per coloro che hanno scelto di vivere secondo le regole, e non opponendosi a esse.

Ma basta soltanto uscire sul confine, sull'invisibile linea di confine dove stiamo noi delle Guardie, sulla linea che separa le Tenebre dalla Luce…

È la guerra. E la guerra è sempre criminale. Sempre, in tutti i tempi, sarà occasione non solo di eroismi e sacrifici, ma anche di tradimenti, vigliaccherie, colpi alle spalle. Evitare questi aspetti quando si combatte è semplicemente impossibile. Vorrebbe dire avere già perso prima di cominciare.

E poi che cos'è tutto questo, alla fin fine? Per che cosa vale la pena di combattere, per che cosa ho il diritto di combattere, quando vivo sul confine, a metà strada tra la Luce e le Tenebre? I miei vicini sono vampiri! E non hanno mai — per lo meno Kostja — non hanno mai ucciso nessuno. Sono persone piacevolissime dal punto di vista degli umani.