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E, volendo considerare i loro comportamenti, sono molto più onesti del Capo o di Ol'ga.

Dov'è allora il confine? Dov'è la giustificazione? Dov'è il perdono? Non conosco la risposta. Non sono in grado di dire nulla, nemmeno a me stesso. Navigo armato dei vecchi ideali e dei vecchi dogmi soltanto per forza d'inerzia. Come possono combattere continuamente i miei compagni, gli agenti operativi della Guardia? Che spiegazioni danno ai loro atti? Anche questo non lo so. Ma le loro opinioni comunque non mi aiuterebbero. Qui ognuno deve fare da solo, come ci ricordano gli slogan delle Forze delle Tenebre.

E, cosa ancora più spiacevole, sentivo che se non avessi capito, se non fossi stato capace di scoprire quel confine, ero condannato. E non soltanto io. Sarebbe perita anche Svetlana. Slanciandosi in un disperato tentativo di salvare il Capo. Si sarebbe sfasciata tutta la struttura della Guardia moscovita.

Ero ancora lì, con un braccio appoggiato al sudicio muro di mattoni. Ricordavo, mordendomi le labbra e sforzandomi di trovare una risposta. Non c'erano risposte. Dunque era il destino.

Attraversando il tranquillo cortile dall'aria accogliente, arrivai al "casermone con le zampe". Il grattacielo sovietico suscitava un'intrinseca tristezza, del tutto ingiustificata, ma profonda. Lo stesso sentimento che mi capitava di provare vedendo dal treno villaggi abbandonati o silos semidistrutti. Un senso di inopportunità, come uno slancio troppo forte che finisce con un gran colpo nel vuoto…

— Zavulon — dissi — se mi senti…

Silenzio, il silenzio tipico di una notte moscovita: rumore di macchine, un po' di musica da una finestra e nessuno per la strada.

— Comunque non hai potuto calcolare tutto — continuai nel vuoto. — Non hai proprio potuto. La realtà ha sempre qualche diramazione inaspettata. Il futuro non è predeterminato. Lo sai. E lo so anch'io.

Attraversai la strada senza guardarmi attorno, senza fare attenzione alle macchine. Ero in missione, no?

Sfera di nascondimento!

Un tram tintinnò, frenando sulle rotaie. Le macchine ridussero la velocità per costeggiare il vuoto che mi circondava. Tutto smise di esistere… tranne l'edificio sul cui tetto avevamo combattuto tre mesi prima, l'oscurità, bagliori di energia, invisibile agli occhi degli umani.

E questa energia, che solo a pochi era dato di vedere, continuava a crescere.

Quello era il centro del tifone, non mi ero sbagliato. Mi avevano condotto proprio qui? Benissimo. Eccomi. Zavulon, certamente ricorderai quella piccola vergognosa sconfitta. Non puoi avere dimenticato lo schiaffo che hai preso davanti ai tuoi schiavi.

Oltre a tutti i suoi grandi scopi — capivo che comunque per lui erano grandi — a spingerlo c"era anche un altro desiderio, che una volta era stato una semplice debolezza umana, ma adesso era stato amplificato in modo smisurato dalle Tenebre.

Vendicarsi. Prendersi la rivincita.

Giocare un'altra partita. Agitare i pugni dopo la rissa.

In tutti voi, Grandi Maghi — sia quelli della Luce, sia quelli delle Tenebre — c'è questo tratto di noia per il combattimento in sé, e questo desiderio di vincere alla grande. Di umiliare l'avversario. Le vittorie semplici non vi interessano più, sono un fatto del passato. La grande contrapposizione è degenerata in un'infinita partita a scacchi. Come per Geser, il Grande Mago della Luce, che ha provato un immenso piacere nello schernire Zavulon, assumendo l'aspetto altrui.

Per me quella contrapposizione non era ancora diventata un gioco.

Forse proprio in quello era racchiusa la mia ultima possibilità.

Presi la pistola dalla fondina, tolsi la sicura. Respirai a fondo, molto a fondo, come se stessi per tuffarmi. Era ora.

Maksim sentiva che quella volta tutto si sarebbe risolto velocemente.

Non ci sarebbe stato bisogno di veglie notturne in attesa del momento propizio per l'agguato, né di lunghi inseguimenti. L'illuminazione era stata troppo chiara, e non solo come percezione di una presenza Altra, nemica, ma anche come precisa guida all'obiettivo.

Arrivato all'incrocio tra via Galuskin e via Jaroslavskaja, si fermò nel cortile di un palazzo molto alto. Guardò la piccola luce nera che ardeva senza fiamma e che si stava lentamente spostando all'interno dell'edificio.

Il mago delle Tenebre era lì. Maksim lo percepiva già concretamente, quasi visivamente. Maschio. Poteri deboli. Non era un mutantropo, non era un vampiro, non era un incubo. Era proprio un mago delle Tenebre. Considerando la modestia dei suoi poteri, non ci sarebbero stati problemi particolari. Il problema era un altro.

Maksim poteva solo sperare e pregare perché non accadesse tanto spesso. Distruggere ogni giorno qualche creatura delle Tenebre era pesante, non solo dal punto di vista fisico. C'era anche il momento più tremendo, quello in cui il pugnale trapassava il cuore del nemico. Il momento in cui tutto attorno a lui cominciava a tremare, a oscillare, i colori si confondevano, i suoni si spegnevano, i movimenti rallentavano fin quasi a fermarsi. Che cosa avrebbe fatto se una volta si fosse sbagliato? Se avesse liquidato non un nemico del genere umano, ma un suo rappresentante? Non lo sapeva.

Ma non c'era via d'uscita se solo lui, in tutto il mondo, era in grado di distinguere le Forze delle Tenebre dagli altri umani. Se solo nelle sue mani era stata posta — da Dio, dal destino, dal caso… — l'arma.

Maksim prese il pugnale di legno. Guardò quella specie di giocattolo con un senso di sgomento. Non era stato lui a costruire un tempo quell'arma, non era stato lui a dargli il solenne, suggestivo nome di "misericordia".

A quel tempo aveva dodici anni e aveva appena incontrato Pet'ka, il suo migliore e anzi unico amico dei tempi dell'infanzia, o meglio ancora, perché barare?, l'unico amico che avesse avuto in tutta la sua vita. Giocavano alle battaglie dei cavalieri antichi. Non solo a quello, naturalmente: la loro infanzia era stata ricca di giochi, anche se non esistevano ancora quelli per il computer. Giocavano con tutto il cortile, in quell'unica breve estate della loro amicizia, costruendosi spade e pugnali, e battendosi con grande forza, ma anche con una certa cautela. Si rendevano già ben conto, infatti, che persino con un'arma di legno ci si può cavare un occhio o causare una ferita grave. Stranamente lui e Pet'ka finivano sempre in campi diversi. Forse perché Pet'ka era più giovane, e Maksim un po' si vergognava dell'amico più piccolo che lo guardava con occhi estasiati e lo seguiva dovunque come un cucciolo adorante. E capitava più o meno ogni giorno che nel corso della battaglia Maksim strappasse la spada di legno dalle mani di Pet'ka — che per la verità non faceva quasi niente per difendersi — e gridasse: «Sei prigioniero!»

Solo una volta era successo qualcosa di speciale. Pet'ka gli aveva teso in silenzio quel pugnale e gli aveva detto che un cavaliere valoroso doveva porre fine alla sua vita con quella "misericordia" e non umiliarlo facendolo prigioniero. Era un gioco, naturalmente, un semplice gioco, ma Maksim aveva avvertito una specie di tremito quando aveva mimato l'affondo mortale con il pugnale di legno. E poi, quando Pet'ka l'aveva guardato per un attimo negli occhi e subito dopo aveva posato lo sguardo sulla mano stretta attorno al pugnale fermo a un millimetro dalla sua maglietta bianca. E alla fine aveva borbottato: «Tienilo, sarà il tuo trofeo.»

Maksim aveva accettato il pugnale di legno con piacere, senza esitazione. Sia come trofeo sia come regalo. Solo, per qualche motivo, non lo portava mai con sé per giocare alla battaglia. Preferiva tenerlo a casa, cercava quasi di dimenticarselo, come se si vergognasse di quel regalo inaspettato e della sua stessa prontezza nell'accettarlo. Ma se ne ricordava, se ne ricordava sempre. E anche quando era diventato grande, si era sposato, aveva avuto i figli, non se n'era mai dimenticato. Il pugnale giocattolo era in un cassetto, insieme alle foto di quando era bambino, a una bustina con una ciocca di capelli e ad altri sciocchi ricordi sentimentali. Fino al giorno in cui Maksim aveva avvertito per la prima volta la presenza nel mondo delle Forze delle Tenebre.