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Il ragazzo sbucato un minuto dopo da una carrozza di quello stesso treno — il Taskent-Mosca, forse uno dei più sudici e scassati del mondo — sembrava esattamente l'opposto. Aveva anche lui un aspetto orientale, forse più vicino a quello degli usbechi, ma vestiva alla moscovita: calzoncini corti e maglietta, occhiali da sole; alla cintola, una borsetta di pelle e un cellulare. Nessun bagaglio. Nessuna patina provinciale. Non si guardò intorno, non cercò l'agognata lettera M. Un rapido cenno al cuccettista, una leggera oscillazione del capo in risposta alle offerte dei tassisti. Un passo, un altro… si immerse nella folla, sgusciò tra i viaggiatori frettolosi, il viso gli si colorì lievemente di ostilità e distacco. Un istante dopo divenne parte organica e indistinguibile della folla. Si radicò nel suo corpo come una cellula, sana e gioiosa, che non invogliava la curiosità né dei poliziotti-fagociti, né delle cellule vicine.

L'omino con il melone e la cartella, invece, vi si intrufolò a fatica, borbottando innumerevoli volte le proprie scuse in un russo non molto corretto, incassando la testa nelle spalle, guardandosi intorno. Passò davanti a un sottopassaggio senza fermarsi, girò la testa, si diresse verso quello successivo, si arrestò accanto a un cartellone pubblicitario, in un punto in cui cera meno calca, e stringendo maldestramente al petto le proprie cose estrasse un foglietto sgualcito e si immerse a studiarlo Sul suo viso non si manifestò il minimo sospetto che lo stessero seguendo.

La situazione era ottimale, per i tre individui che se ne stavano addossati alle pareti della stazione: una bella ragazza, radiosa, dai capelli rossi, con un vestito di seta aderente al corpo: un ragazzo con l'aspetto di un punk e gli occhi sorprendentemente vecchi e malinconici; un uomo con i lunghi capelli lisciati e modi da finocchio.

— Non gli somiglia — disse in tono dubbioso il ragazzo con gli occhi da vecchio. — Eppure non gli somiglia. L'ho visto tanto tempo fa e per poco, ma…

— Intendi forse chiedere precisazioni a Geser? — lo canzonò la ragazza. — Io ci vedo. È lui.

— Te ne assumi la responsabilità? — Il ragazzo non mostrò né stupore né desiderio di discutere. Volle semplicemente precisare la cosa.

— Sì. — La ragazza non staccò lo sguardo dall'asiatico. — Andiamo. Lo prendiamo di sotto.

I primi passi che fecero furono lenti e sincronizzati. Poi si divisero: la ragazza tirò dritto, i due uomini scomparvero ai lati.

L'omino ripiegò il foglietto e si avviò incerto verso il sottopassaggio.

Un moscovita o un ospite frequente della capitale si sarebbe stupito dell'improvvisa assenza di gente. Bene o male, si trattava del percorso più comodo e breve dal metrò al marciapiede ferroviario. Ma l'omino non vi prestò attenzione. Non si rese conto che alle sue spalle i passanti si arrestavano, come urtando contro una barriera invisibile, e infilavano le altre scale. Né poteva in alcun modo vedere che la medesima cosa si stava verificando all'altro capo del sottopassaggio.

Gli si fece incontro un uomo. Sorrideva e aveva un aspetto mellifluo. Da dietro comparvero una ragazza simpatica e un ragazzo trasandato, con l'orecchino e i jeans strappati.

L'omino continuò a camminare.

— Fermati un po', caro — disse il mellifluo con tono pacifico. La voce corrispondeva perfettamente al suo aspetto, era sottile e affettata. — Non correre.

L'asiatico sorrise, ma non si fermò.

Il mellifluo fece un movimento con la mano, come se stesse tracciando una linea tra sé e l'omino. L'aria cominciò a vibrare e un vento gelido si abbatté nel sottopassaggio. Da qualche parte sulla banchina ferroviaria alcuni bambini si misero a piangere, un cane cacciò un ululato.

L'omino si arrestò, guardando davanti a sé con aria meditabonda. Strinse le labbra a mo' di trombetta, soffiò, fece un sorriso astuto all'individuo che gli stava di fronte. Si udì un leggero tintinnio, come se un vetro invisibile si fosse infranto. Il mellifluo fece una smorfia di dolore e arretrò di un passo.

— Bravo, devona — disse la ragazza, fermandosi alle spalle dell'asiatico. — Ma adesso forse ti conviene non avere tutta questa fretta.

— Devo sbrigarmi, ohi, sbrigarmi — biascicò l'omino. Guardò di sbieco dietro di sé: — Vuoi un melone, bellezza?

Sorridendo, la ragazza lo fissò. Disse: — Vieni con noi, signore… Ci siederemo, mangeremo il tuo melone, berremo una tazza di tè. È tanto che ti aspettiamo, non è bello scappare subito via.

Sul viso dell'omino si rifletté un intenso lavorio mentale. Annuì. — Andiamo, andiamo.

Il suo primo passo fece cadere il mellifluo. Come se davanti all'asiatico ora si muovesse uno scudo invisibile, un muro non materiale, ma fatto piuttosto di vento furioso: l'uomo venne trascinato per il pavimento, i lunghi capelli svolazzanti. Strizzò gli occhi e un urlo silenzioso gli esplose in gola.

Il ragazzo con l'aspetto del punk agitò la mano e uno sfarfallio di luci scarlatte si scagliò contro l'omino. Erano accecanti, ma non appena si staccavano dal palmo della mano, cominciavano a indebolirsi. Alla schiena dell'asiatico giungevano quando non erano più che un bagliore a stento visibile.

— Ahi ahi ahi — disse l'omino senza fermarsi. Contrasse le scapole, proprio come se sulla schiena gli si fosse posata una mosca fastidiosa.

— Alisa! — gridò il ragazzo senza interrompere il suo inutile attacco. Le sue dita si muovevano, cincischiavano l'aria, ne attingevano grumi di luce scarlatta e li gettavano contro l'omino. — Alisa!

La ragazza chinò la testa, continuando a fissare l'asiatico in fuga. Bisbigliò piano qualcosa e fece scorrere la mano sul vestito. Dal nulla comparve sul palmo un prisma sottile e trasparente.

L'omino accelerò l'andatura, sbandò a sinistra e a destra, abbassò la testa in modo ridicolo. Il mellifluo continuava a rotolare davanti a lui, ma ormai non si sforzava più di urlare. Aveva il volto graffiato a sangue, gli arti spezzati e privi di controllo, come se non fosse semplicemente rotolato per tre metri su un pavimento liscio, ma come se un folle uragano o un cavallo spronato l'avessero trascinato per tre chilometri su una steppa sassosa.

La ragazza guardò l'omino attraverso il prisma.

Inizialmente l'asiatico rallentò il passo. Poi emise un gemito e aprì le mani. Il melone si spaccò con uno scricchiolio sul pavimento di marmo. Anche la cartella cadde per terra.

— Oh — disse, quando la ragazza lo chiamò devona. — Oh oh oh.

L'omino si accasciò e cominciò a rattrappirsi. Le guance si infossarono, gli zigomi si affilarono, le mani si assottigliarono come quelle dei vecchi e si ricoprirono di vene e venuzze. I capelli neri non imbiancarono, ma si diradarono e un velo di polvere grigia li ricoprì. L'aria intorno a lui vibrò… invisibili rivoli ardenti cominciarono a scorrere verso Alisa.

— Ciò che non mi era stato dato, d'ora in avanti sarà mio — sibilò la ragazza. — Tutto ciò che è tuo è mio.

Il suo viso si stava arrossando tanto rapidamente quanto l'omino rinsecchiva. Le labbra schioccavano, mormoravano sordamente parole dal suono bizzarro. Il punk fece una smorfia, abbassò la mano: l'ultimo raggio scarlatto colpì il pavimento e fece annerire il marmo.

— Davvero facile — disse. — Davvero.

— Il Capo era molto scontento — disse la ragazza, nascondendo il prisma da qualche parte tra le pieghe del vestito. Sorrise. Il suo viso emanava quella forza e quell'energia che a volte pervadono le donne dopo il sesso. — Facile, ma il nostro Kolen'ka non ha avuto fortuna.

Il punk guardò il corpo immobile del capellone e annuì. I suoi occhi torbidi non esprimevano particolare compassione ma nemmeno malevolenza.