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Raccontò il breve aneddoto con assoluta serietà e senza cambiare tono. Mi guardò negli occhi. — Capisci?

— Capisco.

— Sì, certamente. Le Forze delle Tenebre hanno cominciato a compiere di meno il Male — disse Svetlana. — Credo che queste nostre concessioni reciproche — opera buona per opera malvagia, licenze di uccidere e di guarire — si possano giustificare. Le Forze delle Tenebre commettono il Male meno di prima, noi non lo commettiamo per definizione. Ma gli uomini?

— Che c'entrano gli uomini?

— C'entrano eccome! Noi li difendiamo. Con abnegazione totale e instancabilmente. Perché dunque non diventano migliori? Invece fanno da soli il lavoro delle Tenebre. Perché? Non sarà che abbiamo perso qualcosa, Anton? Quella fede per cui i maghi della Luce mandavano gli eserciti a morire, ma marciando essi stessi in prima linea? L'abilità forse non sta soltanto nel difendere, ma anche nel dare gioia. A che servono mura robuste, se sono le mura di una prigione? Gli uomini hanno dimenticato la vera magia, non credono nelle Tenebre, ma neppure nella Luce! Anton, siamo soldati, sì! Ma l'esercito si ama solo se si è in guerra.

— Lo siamo.

— Chi può saperlo?

— Probabilmente non siamo proprio semplici soldati — dissi io. Recedere dalla propria posizione abituale è sempre spiacevole, ma non potevo fare altro. — Degli ussari, piuttosto. Tram pam pam!…

— Gli ussari erano capaci di sorridere. Noi non lo siamo quasi più.

— Allora dimmi cosa bisogna fare. — All'improvviso compresi che quella giornata, preannunciatasi come meravigliosa, stava precipitosamente scivolando verso un burrone oscuro e fetido, pieno di vecchio pattume. — Dillo! Sei una Grande Maga o lo diventerai presto. Uno dei generali della nostra guerra. Io invece sono un semplice tenente. Comandami, e che i tuoi ordini siano precisi. Dimmi, che fare?

Solo in quel momento notai che in sala era sceso il silenzio, che tutti ci stavano ascoltando. Ma ormai non aveva più importanza.

— Dimmi: scendere in strada, uccidere gli agenti delle Tenebre? Lo farò. Non ne sono granché capace, ma mi ci proverò con tutte le mie forze! Dimmi: sorridere e portare in dono il Bene agli uomini? Lo farò. Ma chi pagherà per il Male a cui aprirò la strada? Bene e Male, Luce e Tenebre… Sì, ripetendo queste parole ne cancelliamo il significato, le esponiamo come bandiere e le lasciamo imputridire al vento e sotto la pioggia. Allora dacci una parola nuova! Dacci nuove bandiere! Di' dove bisogna andare e cosa bisogna fare!

Le labbra cominciarono a tremarle. M'interruppi, ma ormai era troppo tardi.

Svetlana piangeva, tenendosi il viso coperto con le mani.

Che diavolo stavo facendo?

Davvero avevamo disimparato persino a sorridere gli uni agli altri?

Potevo avere cento volte ragione, ma…

Cosa contava che io avessi ragione, se ero pronto a difendere il mondo intero, ma non chi mi stava vicino? Se riuscivo a frenare l'odio, ma senza lasciare via libera all'amore?

Mi alzai di scatto, le circondai le spalle con il braccio e la trascinai fuori dalla sala. I maghi se ne stettero fermi, ci accompagnarono con lo sguardo. Forse avevano assistito a scene come quella più di una volta. Forse avevano capito tutto.

— Anton. — Tigrotto comparve accanto a noi senza fare alcun rumore, ci sospinse leggermente, aprì una porta. Mi fissò con un misto di rimprovero e inaspettata comprensione. Poi ci lasciò soli.

Per un minuto restammo immobili, Svetlana piangendo sommessamente, affondata nella mia spalla, e io in attesa. Adesso era troppo tardi per parlare. Avevo già detto tutto il possibile.

— Ci proverò.

Ecco, questo non me l'aspettavo. Ero pronto a tutto: ingiurie, contrattacchi, lamentele… ma non a quella risposta.

Svetlana ritrasse le mani dal viso bagnato, scrollò il capo e fece un sorriso.

— Hai ragione, Anton. Perfettamente ragione. Sono capace soltanto di lamentarmi e protestare. Piagnucolo come un bambino, non capisco niente. Mi mettono sotto il naso la pentola bollente, lasciano che mi scotti e poi aspettano, aspettano che io cresca. Quindi va bene così. Ci proverò, vi darò nuove bandiere.

— Sveta…

— Hai ragione — tagliò corto lei. — Ma anch'io ho un po' ragione. Certo però non avrei dovuto lasciarmi andare davanti ai ragazzi. Oggi è il nostro giorno di festa, non bisogna rovinarlo. D'accordo?

Di nuovo percepii un muro. Quel muro invisibile che si ergerà sempre tra me e Geser, tra me e i funzionari della direzione centrale.

Quel muro che il tempo erige tra noi. Quel giorno avevo posato con le mie mani qualche strato di gelidi mattoni di cristallo.

— Scusami, Sveta — sussurrai. — Scusa.

— Dimentichiamo tutto — disse lei molto ferma. — Su, dimentichiamocelo. Finché siamo ancora in grado di farlo.

Finalmente ci guardammo intorno.

— È uno studio? — chiese Sveta.

Librerie in quercia ebanizzata, volumi dietro vetri scuri. Una scrivania enorme con sopra un computer.

— Sì.

— Ma Tigrotto vive da sola?

— Non lo so. — Scossi la testa. — Non abbiamo mai pensato di chiederglielo.

— Sembrerebbe che vìva sola. Per lo meno adesso. — Svetlana sfilò il fazzoletto e cominciò ad asciugarsi le lacrime. — Ha una bella casa. Andiamo, non mettiamo a disagio gli altri.

— Eppure hanno senz'altro sentito che non stavamo litigando.

— No, non potevano. Qui ci sono barriere ovunque, tra una stanza e l'altra. È impossibile sondare.

Guardando attraverso il Crepuscolo, anch'io notai uno scintillio nascosto nelle pareti.

— Ora le vedo. Diventi ogni giorno più potente.

Svetlana sorrise, un po' forzatamente, ma con orgoglio. Disse: — Strano. Perché costruire barriere, se si vive da soli?

— E perché metterle, quando non si è soli? — chiesi io. A mezza voce, poiché non pretendevo una risposta. E Svetlana non rispose.

Uscimmo dallo studio e ritornammo in sala.

L'atmosfera non era proprio cimiteriale, ma poco ci mancava.

Semën e Il'ja si erano dati da fare: nella stanza regnava un'umidità odorosa di palude. Ignat se ne stava in piedi, abbracciato a Lena, e guardava ansiosamente i presenti. Prediligeva l'allegria in ogni sua forma: qualsiasi discordia e tensione erano per lui come una coltellata nel cuore. I giocatori fissavano in silenzio l'unica carta posata sul tavolo: sotto i loro sguardi, questa si contorceva e si attorcigliava, cambiando di continuo seme e valore. Julja, imbronciata, stava domandando qualcosa sottovoce a Ol'ga.

— Mi versate qualcosa da bere? — chiese Sveta, tenendomi per mano. — Non sapete che per le isteriche la miglior medicina sono cinquanta grammi di cognac?

Tigrotto, che se ne stava accanto alla finestra con espressione infelice, andò frettolosamente verso il bar. Che avesse attribuito a sé la causa del nostro litigio?

Io e Sveta prendemmo un bicchiere di cognac a testa, brindammo con ostentazione e ci scambiammo un bacio. Intercettai lo sguardo di Ol'ga: non gioioso, non rattristato, ma interessato. E un po' geloso. Eppure quella gelosia non era in alcun modo legata al bacio.

Di colpo cominciai a sentirmi male.

Come se fossi uscito da un labirinto in cui mi ero trascinato per lunghi giorni, per mesi interi. Ma uscito soltanto per ritrovarmi all'ingresso di nuove catacombe.

Capitolo 2

Potei parlare a quattr'occhi con Ol'ga solo due ore dopo. La baldoria, per quanto a Svetlana potesse sembrare sforzata, si era ormai trasferita nel cortile. Semën spadroneggiava davanti alla griglia, distribuendo spiedini a chi li voleva; il cibo si cuoceva con rapidità: segno inequivocabile che si stava impiegando la magia. Lì vicino, all'ombra, erano posate due casse di vino secco.