Sparviere lo ringraziò con aria solenne. — Cercherò di meritare la tua fiducia — dichiarò. — Dimmi, sai che luogo è quello… e cos’è quel muro?
— Allora non lo sapevo. Adesso so che tu l’hai attraversato.
— Sì. Sono stato su quel colle. E ho attraversato il muro, grazie al potere e all’arte che un tempo possedevo. E sono sceso nelle città dei morti, e ho parlato a uomini che avevo conosciuto quando erano vivi, e a volte loro mi hanno risposto. Ma Hara, che io sappia, tra tutti i grandi maghi della storia di Roke o Paln o Enlades, tu sei il primo uomo che abbia toccato e baciato la sua amata compagna al di là di quel muro.
Alder sedeva a capo chino, le mani serrate.
— Vuoi dirmi com’era il suo tocco? Le sue mani erano calde? Lei era ombra e aria gelida, o come una donna viva? Perdona le mie domande…
— Vorrei poter rispondere, mio signore. A Roke, l’evocatore mi ha rivolto le stesse domande. Non sono in grado di rispondere in modo veritiero. Il mio struggimento per lei era così intenso, la desideravo a tal punto che… forse mi sono illuso che lei fosse com’era da viva. Però, non lo so. In sogno, non tutte le cose sono chiare.
— In sogno, no. Ma non ho mai sentito dire che qualcuno sia giunto a quel muro nel sonno. È un luogo che un mago può cercare di raggiungere, se deve, se ha imparato il modo e ha il potere necessario. Ma senza la conoscenza e il potere, solo i morenti possono…
In quel momento, Sparviere s’interruppe, ricordando il proprio sogno della notte prima.
— Io pensavo fosse un sogno — disse Alder. — Era angoscioso, però mi era caro. Quella visione era straziante, eppure mi aggrappai a quel dolore, me lo tenevo stretto. Lo volevo. E speravo di sognare ancora.
— È successo?
— Sì. Sognai ancora.
Alder ravvisò senza vederla la grande distesa azzurra di aria e di oceano a ovest di dove sedevano. Basse e indistinte, oltre il mare placido, si scorgevano le colline assolate di Kameber. Dietro di esse, il sole stava spuntando radioso sopra il versante nord della montagna.
— Fu nove giorni dopo il primo sogno. Mi ritrovai nello stesso luogo, però più in alto sulla collina. Vidi il muro sotto di me, attraverso il pendio. Scesi correndo, chiamando il suo nome, sicuro di vederla. C’era qualcuno laggiù. Ma quando mi avvicinai, vidi che non era Giglio. Era un uomo, chino accanto al muro, come se lo stesse riparando. Gli chiesi dove fosse mia moglie, ma lui non rispose, né alzò il capo. Vidi cosa stava facendo. Non stava lavorando per riparare il muro, ma cercava di demolirlo, provando a staccare con le dita una grossa pietra. Quella non si muoveva minimamente, e lui disse: "Aiutami, Hara!". Allora mi accorsi che era il mio maestro, Sula, l’uomo che mi aveva dato il nome. È morto da cinque anni ormai. Continuava a tentare di smuovere la pietra con le dita, e si rivolse ancora a me, chiedendomi di aiutarlo, di liberarlo. Poi si drizzò e allungò la mano oltre il muro verso di me, come aveva fatto Giglio, e prese la mia. La sua mano bruciava… tanto era calda o fredda, non so… comunque, sentendo bruciare, mi staccai da lui, e il dolore e la paura mi svegliarono dal sogno.
Alzò la mano, mentre terminava, mostrando un segno scuro sul dorso e sul palmo, simile a un vecchio livido.
— Ho imparato a non lasciarmi toccare da loro — disse sottovoce.
Ged guardò la bocca di Alder. Si notava un segno scuro anche sulle labbra.
— Hara, hai corso un pericolo mortale — disse il vegliardo, anch’egli sottovoce.
— Non è tutto.
Compiendo uno sforzo per rompere il silenzio con la propria voce, Alder proseguì il racconto.
La notte successiva, quando si addormentò di nuovo, si ritrovò sul colle tenebroso e vide il muro che scendeva dalla sommità attraverso il pendio. Andò verso l’ostacolo, sperando di trovarvi la moglie. — Anche se lei non poteva superarlo, e nemmeno io potevo farlo, non m’importava… mi bastava vederla e parlarle — spiegò. Ma, sempre che Giglio ci fosse, non riuscì a scorgerla in mezzo a tutti gli altri; avvicinandosi al muro, infatti, vide dall’altra parte una folla caotica di figure, alcune nitide, altre vaghe, persone che gli sembrava di conoscere e che non conosceva affatto, tutte con le mani protese verso di lui, che gridavano il suo nome: "Hara! Lasciaci venire con te! Hara, liberaci!".
— È terribile sentire pronunciare il proprio vero nome da degli sconosciuti — disse Alder. — Ed è altrettanto terribile essere chiamato dai morti.
Cercò di voltarsi e risalire il pendio, per allontanarsi dal muro, ma le sue gambe avevano la tremenda debolezza del sogno e non volevano portarlo via. Cadde in ginocchio per non essere afferrato e trascinato oltre la muraglia, e chiese aiuto a gran voce, anche se non c’era nessuno che potesse aiutarlo; e così si svegliò, terrorizzato.
Da allora, ogni notte di sonno profondo, si ritrovava sulla collina, nell’erba secca grigia al di sopra del muro, e i morti si accalcavano numerosi nell’oscurità più in basso, supplicandolo e chiamandolo, invocando il suo nome.
— Mi sveglio, e sono nella mia stanza — disse Alder. — Non sono là, su quel colle. Ma so che loro ci sono. E devo dormire. Cerco di svegliarmi spesso, e di dormire di giorno quando posso, ma devo pur dormire. E allora sono là, e ci sono anche loro. E non posso risalire la collina. Se mi muovo, è sempre verso il basso, verso il muro. A volte riesco a volgere le spalle a tutti, poi però mi pare di sentire Giglio in mezzo a loro, che mi chiama e grida, e mi giro per cercarla. E quelli tendono subito le mani verso di me.
Abbassò gli occhi, guardandosi le mani, strette convulsamente.
— Cosa devo fare? — domandò.
Sparviere non rispose.
Una lunga pausa, quindi Alder riprese. — L’arpista di cui ti ho parlato era un buon amico. Dopo qualche tempo si accorse che qualcosa non andava, e quando gli spiegai che non riuscivo a dormire per paura dei miei sogni popolati di morti, mi consigliò e mi aiutò, perché salpassi alla volta di Ea e là parlassi con un mago, un uomo istruito alla scuola di Roke. Non appena quel mago sentì il racconto dei miei sogni, mi disse che dovevo andare a Roke.
— Qual è il suo nome?
— Beryl. Serve il principe di Ea, che è signore dell’isola di Taon.
Il vecchio annuì.
— Disse che lui non era in grado di aiutarmi, però la sua parola valeva quanto l’oro per il capitano della nave. Così m’imbarcai di nuovo. Fu un viaggio lungo, costeggiando al largo Havnor e scendendo nel mare Interno. Credevo che in mare, lontano da Taon, sempre più lontano, forse sarei riuscito a lasciare quei sogni dietro di me. Il mago di Ea aveva chiamato il luogo che sognavo "la terra ferma" e io pensavo che forse mi sarei allontanato da là, navigando in mare. Ogni notte, invece, mi ritrovavo sul fianco di quel colle. E più di una volta nella stessa notte, con il passare del tempo. Due o tre volte, e ogni volta che chiudo gli occhi sono sulla collina, con il muro sotto di me, e le voci che mi chiamano. Così sono come un uomo pazzo di dolore per una ferita, che può trovare la pace solo nel sonno, ma il sonno è il suo tormento, con lo spasimo e l’angoscia dei miseri morti che si accalcano vicino al muro, riempiendolo di paura…
Ben presto, i marinai cominciarono a evitarlo, narrò Alder, di notte perché gridava e li svegliava quando si destava atterrito, di giorno perché pensavano che su di lui ci fosse una maledizione o fosse posseduto da una forza maligna.
— E non hai trovato sollievo a Roke?
— Nel Bosco immanente — rispose lui, e la sua espressione mutò completamente nel pronunciare quelle parole.
Per un attimo, sul volto di Sparviere comparve la medesima espressione.
— Il maestro strutturatore mi portò là, sotto quegli alberi, e riuscii a dormire. Perfino di notte mi fu possibile addormentarmi. Di giorno, se il sole batte su di me, come ieri pomeriggio qui, il calore mi riscalda e i raggi brillano attraverso le mie palpebre, non ho paura di sognare. Ma nel Bosco immanente non avevo alcuna paura, e ho potuto amare di nuovo la notte.