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Era ancora l’ora in cui la maggior parie dei cittadini si svegliava o stava per coricarsi e perciò erano in pochi al Tamburo a osservare Duefiori scendere le scale. Quando dietro a lui apparve il Bagaglio che prese a rollare disinvolto giù per i gradini, gli avventori, seduti ai rozzi tavoli di legno, come un sol uomo abbassarono sospettosi gli occhi sui loro bicchieri.

Il Grosso stava prendendo a male parole il nanetto che spazzava il bar quando il trio gli passò davanti. — Che diavolo è questo? — esclamò.

— Non parlarne — bisbigliò Hugh. Duefiori stava già sfogliando il suo libro.

— Che sta tacendo? — chiese il Grosso con le braccia penzoloni.

— Gli suggerisce cosa deve dire. So che sembra ridicolo.

— Come fa un libro a suggerire a un uomo cosa deve dire?

— Desidero trovare alloggio, una stanza, dimora, pensione, pensione completa, sono pulite le stanze, una camera con vista, qual è il prezzo per una notte? — recitò Duefiori tutto d’un fiato.

Il Grosso guardò Hugh. Il mendicante si strinse nelle spalle. — Ha un sacco di soldi — disse.

— Allora digli che fa tre monete di rame. E che quella Cosa dovrà sistemarsi nella stalla.

— ? — disse lo straniero. Il Grosso alzò tre tozze dita arrossate e il viso dell’uomo si rasserenò. Prese dal borsellino tre grosse monete d’oro e le mise in mano al taverniere.

Questi le contemplò. Rappresentavano almeno il quadruplo del valore del Tamburo Rotto, personale incluso. Guardò Hugh, ma non ne ricavò nulla. Guardò lo straniero. Deglutì.

— Sì — disse a voce troppo alta. — E poi naturalmente ci sono i pasti. Cibo. Voi mangiate. No? — Accompagnò le parole con i gesti.

— Citu? — chiese l’ometto.

— Sì. — Il Grosso cominciò a sudare. — Date un’occhiata al vostro libretto, ve lo consiglio.

L’altro aprì il libro e fece scorrere il dito su una pagina. Il Grosso, che se la cavava con la lettura, sbirciò al di sopra del volume. Cosa vide non aveva senso.

— Ciiibo — disse lo straniero. — Sì. Cotoletta, spezzatino, braciola, stufato, ragù, fricassea, carne tritata, fettina, soufflé, pallottole di pasta bollita, biancomangiare, sorbetto, dolci, gelatina, marmellata. Rigaglie. — Guardò raggiante il Grosso.

— Tutto? — chiese questi debolmente.

— È solo il suo modo di parlare — spiegò Hugh. — Non chiedermi perché. È così.

Nel locale tutti gli occhi erano puntati sullo straniero. Eccetto quelli di Scuotivcnto il Mago, seduto nell’angolo più buio con un piccolo boccale di birra.

Lui guardava il Bagaglio.

Osservate Scuotivento.

Guardatelo. Scarno, come quasi tutti i maghi, vestito di una palandrana rosso scuro con formule mistiche ricamate a lustrini ormai opachi. Certi l’avrebbero potuto scambiare per un semplice apprendista stregone fuggito dal suo maestro per sfida, noia, paura e una persistente inclinazione per l’eterosessualità. Eppure portava al collo una catena con l’ottagono di bronzo che lo rivelava alunno dell’Università Invisibile, l’alta scuola di magia il cui campus trascendente tempo-e-spazio non si trova mai precisamente Qui o Lì.

Di solito i suoi laureati sono destinati almeno alla magicità, ma Scuotivento, dopo uno sfortunato incidente, l’aveva lasciata con la conoscenza di un solo incantesimo. Sbarcava il lunario in città sfruttando il suo talento innato per le lingue. Di regola evitava il lavoro, ma aveva una mente sveglia che ricordava alle sue conoscenze un vivace roditore. E riconosceva il legno del pero sapiente, quando lo vedeva. Adesso lo stava vedendo e quasi non ci credeva.

Un arcimago, a prezzo di grande sforzo e spreco di tempo, riusciva alla fine a ottenere una piccola bacchetta ricavata dal legno del pero sapiente. Che cresceva soltanto nei luoghi dell’antica magia. C’erano probabilmente non più di due bacchette del genere in tutte le città del Mare Circolare. Una grossa cassa di quel legno… Scuotivento cercò di fare un rapido calcolo e decise che, anche se la cassa fosse stata zeppa di opali stellari e lingotti di auricolato, il contenuto non avrebbe uguagliato nemmeno un decimo del prezzo del contenitore. Una vena prese a pulsargli sulla fronte. Si alzò e si avvicinò al terzetto.

— Posso esservi di aiuto? — chiese.

— Fila, Scuotivento — ringhiò il Grosso.

— Pensavo soltanto che sarebbe stato utile rivolgersi a questo gentiluomo nella sua lingua — disse cortesemente il mago.

— Se la cava benissimo da solo — rispose l’albergatore, ma indietreggiò di qualche passo.

Scuotivento rivolse un sorriso cortese allo straniero e provò con qualche parola di chimerano. Era orgoglioso di parlarlo correntemente, ma l’altro lo guardò confuso.

— Non funziona — dichiarò Hugh. — È il libro, capisci. Gli suggerisce cosa dire. È magico.

Scuotivento tentò con l’alto borograviano, il vanglemesht, il sumtri e perfino l’oroogu nero, la lingua senza sostantivi e un solo aggettivo, che è osceno. Ogni suo tentativo incontrò un’educata incomprensione. Disperato, ricorse al pagano trob, e il viso dell’ometto si illuminò di un gran sorriso felice.

— Finalmente! — esclamò. — Mio buon signore! È davvero notevole! — (Benché nella lingua trob l’ultima parola in effetti diventasse: "Una cosa che può succedere una sola volta nella vita di una canoa ricavata diligentemente con l’accetta e il fuoco dal più alto albero di legno diamantifero che cresce nelle ben note foreste diamantifere alle pendici dei monte Awayawa, patria degli dei del fuoco o così si dice".)

— Che voleva dire? — domandò il Grosso sospettoso.

— Che ha detto l’albergatore? — chiese l’ometto.

Scuotivento deglutì. — Per piacere, Grosso, due boccali della tua birra migliore.

— Tu lo capisci?

— Oh, sicuro.

— Digli… digli che è il benvenuto. Digli che la prima colazione fa, uhm, una moneta d’oro. — Per un momento, dalla faccia del Grosso trasparì un violento conflitto interiore, poi lui aggiunse in un impeto di generosità: — Ci comprenderò anche la tua.

— Straniero — disse Scuotivento calmo — se rimanete qui, quando calerà il crepuscolo vi pugnaleranno o vi avveleneranno. Ma continuate a sorridere, oppure lo faranno a me.

— Oh, via — protestò lo straniero guardandosi intorno — questo mi sembra un posto delizioso. Una vera taverna morporkiana. Ho sentito parlare tanto di queste taverne, sapete. Tutte queste curiose vecchie travi. E anche prezzi così ragionevoli.

Scuotivento diede una rapida occhiata in giro, nel caso un incantesimo trapelato dal Quartiere dei Maghi al di là del fiume li avesse momentaneamente trasportati in un altro luogo. No… quello era ancora l’interno del Tamburo, con le pareti sporche di fumo, il pavimento un composto di paglia vecchia e insetti innominabili, la birra acida. Tentò di fare combaciare l’immagine con il termine "curioso" o piuttosto l’equivalente più approssimativo nella lingua trob, ossia: "Quel simpatico strano disegno che presentano le piccole case di corallo dei pigmei mangiatori di spugne nella penisola Orohai".

Lo sforzo gli fece girare la testa. Il visitatore continuò: — Mi chiamo Duefiori. — E gli tese la mano. Istintivamente gli altri tre abbassarono gli occhi a guardare se dentro c’era una moneta.

— Piacere di conoscervi — disse Scuotivento. — Io sono Scuotivento. Sentite, non scherzavo. Questo è un posto pericoloso.

— Bene! È ciò che volevo!

— Eh?

— Che è questa roba nei boccali?

— Questa? Birra. Grazie, Grosso. Sì, birra. Sapete, birra.

— Ah, la bevanda così tipica. Una monetina d’oro basterà per pagare, che ne dite? Non voglio arrecare offesa.

Aveva già tirato fuori a meta la moneta.

— Yarrt — gracchiò Scuotivento. — Voglio dire, no, non arrecherà offesa.