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Kari Ram rise, ma Moot Ang proseguì:

«Inoltre, noi abbiamo un dovere da compiere, come ogni altro membro della società. E per essere i primi a penetrare in regioni dell’universo prima d’ora irraggiungibili dobbiamo pagare un prezzo: e questo prezzo è morire per settecento anni. Ma coloro che sono rimasti indietro, a godere di tutti i piaceri della vita terrestre, non conosceranno mai la meraviglia e la gioia di guardare nei segreti più profondi dell’universo. E in quanto al nostro ritorno… non credo che tu debba preoccuparti per il futuro. Dall’inizio della storia umana non c’è mai stata un’età in cui l’umanità non abbia conservato qualcosa del suo passato, nonostante il suo progresso ascensionale. Ogni secolo, oltre alle sue caratteristiche particolari, ha sempre avuto caratteristiche simili a quelle di tutti gli altri tempi. Forse anche quella piccola scintilla di conoscenza che riporteremo sulla Terra potrà contribuire ad un nuovo progresso della scienza, a rendere più ricca e più piena la vita di tutta l’umanità. E anche se noi ritorneremo da un passato lontanissimo, ebbene, le nostre vite non sono forse dedicate al futuro? Come potremo sentirci stranieri in mezzo alle nuove genti fra cui ci recheremo? Come è possibile che qualcuno il quale dà tutto alla società possa essere un estraneo per i suoi fratelli? Devi ammettere che l’uomo è qualcosa di più che un semplice accumulo di nozioni e di conoscenze; è un portatore di emozioni complesse, e sotto questo punto di vista non saremo inferiori a nessuno, dopo le esperienze del nostro viaggio.»

Moot Ang si interruppe per un attimo, poi aggiunse, in tono più leggero:

«Parlando a titolo strettamente personale, sono così ansioso di vedere il futuro che anche soltanto per questo…»

«…ti senti pronto a morire temporaneamente, dal momento che è nell’interesse della Terra?» chiese il navigatore.

Il capitano annuì.

«Faresti meglio ad andare a prendere qualcosa da mangiare,» disse poi. «Fra poco verrà il momento di iniziare il secondo balzo. E tu cosa sei venuto a fare qui, Tey?»

Il secondo ufficiale alzò le spalle.

«Volevo dare un’occhiata alla rotta calcolata dai nostri strumenti. Ed è anche il momento di rilevarti.»

Premette un pulsante al centro del pannello ed una liscia, lucida copertura concava slittò via. Una spirale di nastro color argento sorse dalle profondità dello strumento; e vi scorreva sopra un ago nero che indicava la rotta della nave.

Minuscole luci, scintillanti come gemme, rappresentavano, sulla spirale metallica, le stelle delle diverse classi spettrali, in mezzo alle quali doveva svolgersi la rotta della Tellur. Su un incalcolabile numero di quadranti, le lancette danzavano, mentre le calcolatrici stabilivano la direzione del prossimo balzo, in modo da mantenere l’astronave a distanza di sicurezza rispetto alle stelle, alle nuvole di polvere cosmica ed alle nebulae luminose che avrebbero potuto nascondere ignoti corpi celesti.

Tey Eron era così assorbito nel suo lavoro che quasi non si rendeva conto che il tempo passava. E, nel frattempo, la grande astronave continuava ad avanzare attraverso il nero abisso del cosmo.

Mentre l’astrofisico lavorava, i suoi due compagni se ne stavano seduti, in silenzio, sprofondati in un sedile semicircolare posto accanto alla massiccia, triplice porta che divideva la sala comando dal resto dell’astronave.

Parecchie ore più tardi, il gaio tintinnio d’un campanello annunciò che i calcoli erano terminati.

Il capitano si diresse verso il pannello dei comandi.

«Magnifico! Il prossimo balzo sarà tre volte più lungo di questo!»

«Non proprio. Guarda qui…» Tey indicò la punta dell’ago nero che stava vibrando debolmente, all’unisono con una serie di indicatori.

«In ogni caso, siamo sicuri di un balzo di cinquantasette parsec. Ammettiamo un margine di errore di cinque parsec; il che significa cinquantadue. Pronti per il balzo.»

Gli innumerevoli strumenti vennero controllati ancora una volta.

Moot Ang si recò a controllare le cabine, dove dormivano gli altri cinque componenti dell’equipaggio.

Gli strumenti automatici di osservazione fisiologica garantivano che tutti e cinque si trovavano in condizioni normali. Stabilito questo, il capitano riaccese il campo protettivo attorno ai quartieri dell’equipaggio. Striature rosse corsero lungo il pannello gelido sopra la parete, rivelando il flusso del gas attraverso i tubi nascosti nell’intercapedine.

«Pronti?» chiese Tey Eron al comandante.

Il capitano annuì, ed i tre uomini nella sala comando tornarono a prendere posto nei grandi sedili imbottiti. Si assicurarono con cuscini pneumatici, poi presero le siringhe ipodermiche chiuse nello scompartimento del bracciolo sinistro.

«Bene, avanti… per altri centocinquant’anni di vita terrestre,» disse Kari Ram, affondandosi nel braccio la punta dell’ago.

Moot Ang lo fissò, attento: ma il lieve scintillio ironico negli occhi del giovane lo rassicurò. Quando i suoi due compagni furono ricaduti all’indietro contro le spalliere dei sedili ed ebbero perduto conoscenza, il capitano attivò i meccanismi automatici che controllavano tanto il calcolatore del balzo quanto lo schermo protettivo, mosse le leve di un pannello più piccolo, per fare discendere dal soffitto le cupole massicce e silenziose.

Quando le cupole furono discese al loro posto, il capitano gettò un ultimo sguardo sui quadranti che adesso erano illuminati da una fioca luce azzurrina, e affondò nel braccio la punta dell’ago ipodermico.

Capitolo II

L’astronave emerse dal quarto balzo.

Navigava ad una velocità lievemente inferiore a quella della luce, ad una distanza non superiore a quattro parsec dalla sua destinazione, la gigante-nera KNT-8008, che apparteneva alla classe delle rarissime stelle oscure al carbonio.

I più potenti telescopi della Terra potevano individuarla a fatica, ma adesso incombeva sugli schermi, a nord della nave, grande quanto appare il Sole visto da Mercurio.

Le stelle simili a quella, con un diametro superiore da centocinquanta a centosettanta volte al diametro del sole, erano contraddistinte dall’abbondanza di carbonio nella loro atmosfera. Ad una temperatura di 2.000/3.000 gradi centigradi, gli atomi di carbonio formavano un tipo specifico di molecole, consistenti di tre atomi ciascuna. Le atmosfere stellari dotate di una simile struttura molecolare assorbivano la radiazione nella zona del violetto, e di conseguenza la luminosità delle stelle di questa classe era molto bassa in rapporto alle loro dimensioni.

Il cuore delle giganti al carbonio, tuttavia, aveva temperature che si aggiravano attorno ai cento milioni di gradi, e questo le rendeva simili ad altrettanti, potentissimi generatori di neutroni, che trasformavano gli elementi leggeri in elementi pesanti, perfino più pesanti dell’uranio, dal californio al russio. L’ultimo di questi elementi noti, che aveva un peso atomico pari a 401, era stato ottenuto per la prima volta circa quattrocento anni prima.

Gli scienziati ritenevano che le stelle al carbonio fossero le fabbriche dell’universo nelle quali venivano forgiati gli elementi pesanti, scagliati poi nello spazio da eruzioni periodiche. Le giganti al carbonio erano la sorgente dei nuovi elementi chimici che apparivano costantemente nella nostra Galassia.