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Taina si illuminò.

«E’ Moot Ang,» disse, stringendo la mano di Kari.

Entrarono nella biblioteca: c’erano tre uomini. Il medico di bordo, Svet Sim e l’ingegnere addetto al tonneggio, Yas Tin, stavano comodamente affondali nelle poltrone fra le pareti delle cabine di proiezione. A sinistra, il comandante della Tellur era chino sulla tastiera del VEM.

Il VEM era il viono elettromagnetico, lo strumento che da tanto tempo ormai aveva sostituito il pianoforte, i cui toni erano troppo duri: il VEM, invece, aveva la ricchezza tonale del piano ma la espandeva con la melodiosa ricchezza del violino. Gli amplificatori potevano conferire ai suoni emessi dal VEM una potenza incredibile.

Moot Ang non si era accorto dei nuovi arrivati.

Era seduto, un poco inclinato in avanti, il volto levato verso i pannelli rombici del soffitto, mentre le sue dita scorrevano leggere sulla tastiera. Come nell’antico pianoforte, ogni sfumatura del suono dipendeva dal tocco del suonatore, anche se il suono non era prodotto da martelletti che percuotevano le corda, ma da delicati impulsi elettronici che avrebbero potuto venir quasi paragonati agli impulsi nervosi del cervello umano.

La musica fluiva in armonie dolcemente intessute, che narravano la fusione della Terra e dell’universo. Il flusso si spezzò, note di pensosa malinconia si frammischiarono al rombo d’un temporale lontano, in un crescendo graduale di suoni dal quale altre note si levavano come grida di disperazione. La tensione divenne più alta, ancora più alta, fino a che raggiunse l’esplosione cataclismica finale che si risolse in una valanga di dissonanze, scivolando sempre più in basso, in un abisso oscuro di affanno inconsolabile per ciò che era perduto per sempre.

Poi improvvisamente pure, chiare note di limpida gioia scaturirono sotto le dita di Moot Ang, fondendosi nella mite malinconia dell’accompagnamento.

Proprio in quel momento la porta si aprì, ed Afra Devi, che ora indossava un camice bianco, entrò nella stanza e si diresse verso Svet Sim. Il medico l’ascoltò, poi fece un cenno al capitano.

Le mani di Moot Ang lasciarono la tastiera, il silenzio spezzò il flusso della musica, con la stessa rapidità con cui la discesa della notte tropicale annienta il giorno.

Il capitano uscì dalla sala insieme al medico, seguito dagli sguardi preoccupati degli altri. Era accaduto qualcosa di molto insolito: il secondo navigatore era stato colto da un attacco di appendicite acuta. Era evidente che aveva trascurato di seguire scrupolosamente il programma di preparazione medica al viaggio.

Il dottor Sim chiese al capitano l’autorizzazione ad operare d’urgenza.

Moot Ang esitò. La medicina moderna, i cui metodi consentivano di regolare l’attività nervosa nello stesso modo in cui, negli apparecchi elettronici, venivano regolati gli impulsi, era in grado di curare una quantità di malattie.

Ma il medico insistette. Osservò che le condizioni del paziente potevano venir migliorate, sul momento: ma l’enorme tensione imposta al suo organismo dal viaggio spaziale avrebbe potuto provocare una ricaduta.

Il paziente era disteso sull’ampia tavola operatoria, ed era avviluppato in un labirinto di fili collegati ai trentasei apparecchi elettronici, che fornivano un quadro dettagliato delle sue condizioni. L’induttore ipnotico ammiccava ritmicamente nella penombra della stanza. Il dottor Sim consultò ancora una volta gli strumenti e fece un cenno ad Afra Devi, che aveva il compito di assisterlo.

Ogni componente dell’equipaggio, infatti, oltre ad essere specializzato in una particolare disciplina scientifica, era addestrato per svolgere anche particolari mansioni, a bordo: mantenere in efficienza i meccanismi dell’astronave, occuparsi delle vettovaglie e così via.

Afra portò una vaschetta trasparente piena di un liquido azzurrino, nella quale giaceva uno strumento di metallo segmentato che somigliava ad una scolopendra di buona misura. Afra preso lo strumento e, da una altra bacinella, prese un arnese di forma conica collegato a lunghi tubi sottili. Si udì un lieve ticchettio e la scolopendra metallica si attivò, con un ronzio appena udibile.

Svet Sim fece un cenno; e lo strumento fu inserito nella bocca del paziente.

Moot Ang si avvicinò allo schermo semitrasparente collocato sopra l’addome del malato: nella luce verdastra dello schermo, i contorni grigi degli organi interni e lo strumento segmentato che si faceva strada lungo l’apparato digerente erano chiaramente visibili.

In pochi minuti, l’estremità ottusa della scolopendra metallica era a contatto con la base dell’appendice.

Mentre lo strumento premeva sull’area infiammata, la sofferenza aumentò; fu necessario somministrare sedativi al paziente, per combattere le contrazioni degli intestini. In pochi minuti, l’analizzatore dei dati aveva completato la diagnosi ed aveva segnalato gli antibiotici e gli antisettici necessari.

Poi la scolopendra metallica inserì le sue lunghe zampe flessibili nell’appendice, ne risucchiò il pus e i corpi estranei che avevano provocato il processo infiammatorio. Questa azione fu seguita da una energica irrigazione con soluzioni biologiche che riportarono le membrane mucose dell’appendice a condizioni normali.

Il paziente dormiva serenamente mentre lo strumento compiva la propria opera. L’operazione finì ed al medico rimaneva soltanto il compito di estrarre il minuscolo automa.

Il capitano emise un respiro di sollievo. Nonostante i progressi della medicina, le imprevedibili particolarità degli organismi individuali provocavano talvolta complicazioni inattese, perché era ovviamente impossibile stabilire in precedenza ogni deviazione rispetto alla norma, fra tutte le migliaia di milioni di abitanti della Terra.

E, se non c’era di che preoccuparsi per queste possibili complicazioni quando ci si trovava sulla Terra, che disponeva di imponenti attrezzature mediche, in una spedizione come quella della Tellur un caso del genere avrebbe potuto rivelarsi pericoloso.

Ma tutto era andato bene. Rasserenato, Moot Ang ritornò nella biblioteca deserta e tornò a sedersi davanti al viono. Posò le mani sulla tastiera, ma non suonò. I suoi pensieri ritornarono, invece, come infinite altre volte, alla felicità umana ed al futuro.

Era il suo quarto viaggio nel cosmo: ma mai, prima di allora, si era imbarcato per un volo destinato a coprire uno spazio ed un tempo così lunghi.

Ora che l’uomo passava rapidamente da una realizzazione all’altra, da una scoperta all’altra, ora che l’umanità aveva accumulato un patrimonio vastissimo di conoscenze, settecento anni non potevano più venire paragonati ad un analogo periodo di tempo appartenente alle civiltà passate. Allora, il progresso sociale era limitato alla conquista di zone ancora disabitate del nostro pianeta, da parte dell’umanità. In quei giorni lontani, il tempo strisciava pigro e il progresso umano era lento quanto il moto dei ghiacciai artici o antartici. Il tempo pareva essere rimasto immobile per secoli: a quei tempi, cosa poteva rappresentare la durata di una vita umana, o un secolo, od anche dieci secoli?

Cosa avrebbero provato, gli abitanti di quel mondo antico, si chiese Moot Ang con un brivido, se avessero saputo in anticipo quanto sarebbe stato lento il progresso sociale, se avessero previsto per quanto tempo ancora l’uomo sarebbe stato oppresso dall’ingiustizia e dal caos? Se uno avesse dormito per settecento anni, ai tempi dell’antico Egitto, si sarebbe svegliato per trovare in vigore lo stesso sistema di schiavismo… con la sola variante di uno sfruttamento ancora più spietato.

Nell’antica Cina, un periodo di settecento anni cominciava e finiva con le stesse guerre e le stesse dinastie; e l’Europa passava, in quello stesso tempo, soltanto dall’oscurità del Medioevo alle tenebre dell’Inquisizione.