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Per un attimo Tanis vide l’immagine con l’occhio della sua mente... Era come lui l’aveva vista due anni prima. Poi la visione si dissolse. Allora era autunno. Adesso era primavera. Il fumo era ancora lì, il fumo dei fuochi delle case. Ma adesso proveniva per la maggior parte da case costruite sul terreno. C’era il verde delle creature vive che crescevano e rinascevano, ma ciò, nella mente di Tanis, pareva dare ancora più rilievo alle cicatrici nere sul terreno, cicatrici che non avrebbero mai potuto venir totalmente cancellate, anche se qua e là poteva vedere che erano solcate dai segni degli aratri.

Tanis scosse la testa. Tutti pensavano che con la distruzione dell’immondo tempio della Regina a Neraka la guerra fosse finita. Tutti erano desiderosi di arare quel suolo annerito e riarso, bruciato dal fuoco dei draghi, e scordare il proprio dolore.

I suoi occhi andarono all’immane cerchio nero che spiccava al centro della città. Lì non cresceva nulla. Nessun aratro poteva rivoltare il suolo devastato dal fuoco dei draghi e inzuppato dal sangue degli innocenti, assassinati dalle truppe dei Signori dei Draghi.

Tanis ebbe un cupo sorriso. Poteva ben immaginare quale pugno nell’occhio dovesse essere l’irritare coloro che lavoravano per dimenticare. Era lieto di trovarsi là. Sperava di poterci rimanere per sempre.

Con voce sommessa ripetè le parole che aveva sentito pronunciare a Elistan, quando il chierico aveva dedicato, con una solenne cerimonia, la Torre del Sommo Chierico al ricordo di quei cavalieri che vi erano morti:

«Dobbiamo ricordare, altrimenti cadremo nell’autocompiacimento, come abbiamo fatto in precedenza, e il male tornerà una volta ancora...»

Se non ci è già addosso, pensò Tanis, cupo in volto. E con questo in mente, si girò e si affrettò a ridiscendere la collina.

Quella sera la Locanda dell’Ultima Casa era affollata.

Malgrado la guerra avesse portato devastazione e distruzioni agli abitanti di Solace, la fine dei combattimenti aveva portato una tale prosperità che qualcuno stava già dicendo che non era poi andata «tanto male». Solace era stata per lungo tempo un crocevia per i viaggiatori che passavano attraverso le terre di Abanasinia. Ma nei giorni antecedenti la guerra il numero dei viaggiatori era sempre stato piuttosto scarso. I nani, salvo per pochi rinnegati come Flint Fireforge, si erano chiusi nel loro regno montagnoso di Thorbardin oppure si erano barricati tra le colline, rifiutandosi di aver qualcosa a che fare con il resto del mondo. Gli elfi avevano fatto lo stesso, abbarbicandosi nel fascinoso territorio di Qualinesti a sudovest, e di Silvanesti sul bordo orientale del continente di Ansalon.

La guerra aveva cambiato tutto questo. Adesso gli elfi, i nani e gli umani viaggiavano in lungo e in largo, le loro terre e i loro regni erano aperti a tutti. Ma c’era voluto un annientamento quasi totale per arrivare a questa fragile condizione di fratellanza.

La Locanda dell’Ultima Casa - a motivo delle sue raffinate bevande e delle famose patate speziate di Otik - era diventata ancora più popolare. Le bevande erano buone e le patate eccellenti come sempre - anche sé, Otik si era ritirato - ma la vera ragione dell’aumento della popolarità della locanda stava nel fatto che aveva acquistato una notevole notorietà poiché era risaputo che gli Eroi delle Lance, come adesso venivano chiamati, l’avevano un tempo frequentata.

In effetti, Otik prima di ritirarsi aveva preso in seria considerazione la possibilità di mettere una targa sopra il tavolo accanto al caminetto con scritto qualcosa come «Qui bevvero Tanis Mezzelfo e compagni». Ma Tika si era opposta al progetto con tanta veemenza (il solo pensiero di ciò che Tanis avrebbe detto se avesse visto una cosa del genere faceva bruciare le guance di Tika) che Otik aveva lasciato perdere. Ma il rotondo oste non si era mai stancato di raccontare ai propri clienti la storia della notte in cui la donna barbara aveva cantato la sua strana canzone e guarito Hederick il Teocrate col suo bastone di cristallo azzurro, fornendo la prima prova dell’esistenza degli antichi, veri dei.

Tika, che aveva preso la direzione della locanda quando Otik si era ritirato, e sperava di mettere da parte un gruzzoletto sufficiente per comperare l’azienda, si augurava con fervore che Otik si astenesse dal raccontare di nuovo quella storia stasera. Ma avrebbe potuto impiegare la sua speranza in cose migliori. C’erano parecchi gruppi di elfi che avevano fatto tutto il percorso da Silvanesti per prender parte al funerale di Solostaran - Portavoce del Sole e sovrano delle terre degli elfi di Qualinesti. Non soltanto sollecitavano Otik a raccontare la sua storia, ma, per di più, ne raccontavano alcune di proprie, sulla visita fatta dagli Eroi alla loro terra e su come l’avevano liberata dal drago malefico, Cyan Bloodbane. Tika vide che Otik, nell’udire ciò, lanciava occhiate nostalgiche nella sua direzione. dopotutto Tika era stata uno dei membri del gruppo che era stato a Silvanesti. Ma lei lo azzittì scuotendo furibonda i suoi riccioli fulvi. Quella era una parte del loro viaggio che si rifiutava sempre di raccontare , o anche soltanto di discutere. In effetti pregava ogni notte di più, di dimenticare gli orrendi incubi di quella terra torturata.

Tika chiuse gli occhi per un attimo, augurandosi che gli elfi lasciassero cadere il discorso. Adesso lei aveva i suoi propri incubi. Non aveva alcun bisogno che quelli del passato l’ossessionassero.

«Fai che vengano e se ne vadano in fretta,» disse con voce sommessa, rivolta a qualunque dio potesse ascoltarla.

Era appena passato il tramonto. I clienti entravano in numero sempre maggiore chiedendo cibo e bevande. Tika si era scusata con Dezra, le due amiche avevano versato qualche lacrima insieme, e adesso erano impegnate a correre dalla cucina al bancone e ai tavoli. Tika sussultava tutte le volte che la porta si apriva, e corrugava la fronte irritata tutte le volte che udiva la voce di Otik levarsi sopra il baccano dei boccali e delle lingue: «una bellissima notte d’autunno, a quanto ricordo, ed ero, naturalmente, più affaccendato di un sergente draconico durante le esercitazioni.» Ciò causava immancabilmente una risata. Tika serrò i denti. Otik aveva un pubblico adorante ed era lanciato in pieno. Adesso non ci sarebbe stato nessun modo per fermarlo. «Allora la locanda era appesa tra gli alberi di vallen, come il resto della nostra adorabile città prima che i draghi la distruggessero. Ah, com’era bella ai vecchi tempi.» Sospirò - a questo punto sospirava sempre - e si asciugò una lacrima. Un mormorio di solidarietà si levò dalla folla. «Dov’ero rimasto?» Si soffiò il naso, un’altra parte della recita. «Ah, sì. Ero là dietro il bancone quando la porta si aprì...»

La porta si aprì, avrebbe potuto esser concertato come una battuta ad effetto, talmente perfetta fu la sincronizzazione. Tika si scostò dalla fronte sudata una ciocca di capelli rossi e lanciò un’occhiata nervosa in quella direzione. Un improvviso silenzio calò nella sala. Tika s’irrigidì, le unghie affondarono nelle sue mani.

Un uomo alto, così alto che dovette chinarsi per varcare la porta, si stagliò sulla soglia. I suoi capelli erano scuri, il suo volto tetro e severo. Malgrado fosse avvolto in pellicce, era ovvio dalla sua camminata e dal suo portamento che il suo corpo era forte e muscoloso. Lanciò una rapida occhiata alla locanda affollata soppesando coloro che erano presenti, circospetto e attento ai pericoli.

Ma era stata soltanto un’azione istintiva, poiché quando il suo sguardo cupo e penetrante si fissò su Tika, il suo volto severo si rilassò in un sorriso, e l’uomo spalancò le braccia.

Tika esitò, ma la vista del suo amico la riempì d’una gioia improvvisa e di una strana ondata di nostalgia. Facendosi largo a gomitate tra la folla, venne avvolta nel suo abbraccio.

«Riverwind, amico mio,» mormorò con voce rotta.