Perrin brontolò, disgustato. «Siamo semplici viaggiatori diretti a Illian, ragazza. Come ti chiami? Se devo dividere con te questa nave per chissà quanti giorni, non posso continuare a chiamarti “ragazza".»
«Mi chiamo Mandarb.»
Perrin scoppiò a ridere. Gli occhi a mandorla lo guardarono con sguardi di fuoco. «T’insegnerò qualcosa, contadino» disse la ragazza; mantenne calmo il tono... per un pelo. «Nella Lingua Antica, Mandarb significa “lama". Un nome degno d’un Cercatore del Como!»
Perrin riuscì a tornare serio e indicò il recinto di funi fra i due alberi della nave. «Vedi quel morello? Si chiama Mandarb.»
La ragazza si calmò di colpo e arrossì. «Oh!» disse. «In realtà mi chiamo Zarine Bashere; ma Zarine non è nome da Cercatore. Nelle storie, i Cercatori hanno nomi come Rogosh Occhio d’Aquila.»
Parve così abbattuta che Perrin si affrettò a soggiungere: «Mi piace, Zarine. Ti si adatta.» Gli occhi di lei s’infiammarono di nuovo e per un momento Perrin pensò che avrebbe fatto ricomparire i coltelli. «È tardi, Zarine» disse. «Vorrei dormire un poco.»
Si girò per andare al portello che portava sotto coperta e si sentì formicolare la schiena. I marinai continuavano a manovrare i remi. Perrin si diede dello sciocco: la ragazza non l’avrebbe accoltellato, sotto gli occhi di tutta quella gente. Appena fu al portello, lei lo chiamò.
«Contadino! Forse mi farò chiamare Faile. Quand’ero bambina, mio padre soleva chiamarmi Faile. Significa “falco".»
Perrin s’irrigidì e rischiò di mancare il primo gradino. Era solo una coincidenza, si disse. Si costrinse a scendere senza girarsi. Il corridoio era buio ma vi filtrava chiaro di luna sufficiente per trovare la strada. “Maledizione a te, Min” pensò. “Perché devi sempre vedere qualcosa?"
36
Figlia della Notte
Perrin si rese conto di non sapere quale fosse la propria cabina, quindi sporse la testa in parecchie. Erano tutte buie e in ognuna dormivano due uomini, in lettini contro la parete, uno di fronte all’altro, tranne quella che ospitava Loial, seduto per terra fra i letti (ci stava appena) e occupato a prendere appunti alla luce d’una lanterna. L’Ogier avrebbe voluto parlare degli eventi della giornata, ma Perrin, con le mascelle che gli dolevano per lo sforzo di trattenere gli sbadigli, si disse che ormai la nave aveva percorso un tratto sufficiente a permettergli di dormire senza sognare. I lupi non avrebbero potuto mantenere a lungo la velocità della nave, spinta dai remi e dalla corrente.
Finalmente trovò una cabina priva di finestrelle e senza occupanti, cosa che gli andava bene: voleva stare da solo. Mentre accendeva la lanterna fissata alla parete, si disse che il nome era soltanto una coincidenza: in fin dei conti, la ragazza non si chiamava Faile, ma Zarine. Comunque, non era al primo posto nei suoi pensieri. Posò sopra un letto arco e bagagli, li coprì col mantello e si sedette sull’altro letto per togliersi gli stivali.
Elyas Machera aveva trovato un compromesso per vivere legato in qualche modo ai lupi e non era impazzito. Ripensandoci, Perrin fu sicuro che Elyas vivesse già in quel modo da parecchi anni, da molto prima del loro incontro. Elyas voleva essere fratello dei lupi, o comunque lo accettava. Ma per lui, Perrin, non c’era soluzione: lui non voleva vivere a quel modo, non voleva accettare lo stato di cose. Però, se uno ha la barretta di ferro per fare un coltello, fa un coltello, anche se gli piacerebbe fare una scure. Ma la sua vita non era pezzo di ferro da sagomare a martellate!
Con prudenza aprì la mente alla ricerca di lupi e trovò... niente. Oh, ebbe una vaga impressione di lupi da qualche parte in lontananza, che però svanì appena toccata. Per la prima volta, dopo tanto tempo, era solo. Benedettamente solo. Spense la lanterna e si distese. Si domandò come se la sarebbe cavata Loial, in un lettino così piccolo. Ma sentì su di sé il peso di tutte le notti insonni e i muscoli che si rilassavano per lo sfinimento. Era riuscito a togliersi di mente l’Aiel. E i Manti Bianchi. Quella maledetta ascia! Non l’avesse mai vista! Sprofondò nel sonno.
Era circondato da fitta nebbia grigia: non riusciva a vedere i propri stivali e non distingueva niente nel raggio di dieci passi. Più vicino non c’era niente di sicuro; ma nella nebbia poteva nascondersi qualsiasi cosa. La nebbia pareva sbagliata: era priva d’umidità. Perrin si portò alla cintola la mano, cercando conforto nel pensiero che all’occorrenza poteva difendersi, e trasalì: non aveva l’ascia.
Qualcosa si mosse nella nebbia, un turbinio nel grigiore. Qualcosa che veniva dalla sua parte.
Perrin si tese, incerto se fosse meglio darsi alla fuga o restare a combattere a mani nude, ammesso che ci fosse qualcosa da combattere.
L’increspatura che forò la nebbia si rivelò un lupo, la cui sagoma irsuta si confondeva con la densa foschia.
"Hopper?" trasmise Perrin.
Il lupo esitò, venne a fermarsi accanto a lui. Era Hopper, Perrin ne fu sicuro; ma qualcosa nella posizione del lupo, qualcosa negli occhi gialli che per un attimo incrociarono il suo sguardo, esigeva silenzio, mentale oltre che fisico. Quegli occhi chiedevano pure che lui lo seguisse.
Perrin posò la mano sul dorso del lupo e Hopper si mosse. Perrin si lasciò guidare. Sentiva il pelame folto e irsuto: era reale.
La nebbia divenne più fitta, al punto che solo il contatto diceva a Perrin che Hopper era ancora lì. Solo nebbia grigia. Perrin non avrebbe visto molto di più, se l’avessero avvolto in lana appena tosata. Fu colpito dal fatto di non avere udito alcun rumore. Neppure quello dei propri passi. Contorse le dita dei piedi e con sollievo scoprì di avere gli stivali.
Il grigio divenne più scuro: Perrin e il lupo si trovarono a camminare nel buio assoluto. Perrin si toccò il naso e non riuscì a vedere la propria mano. Provò per un attimo a chiudere gli occhi e non notò alcuna differenza. Non c’erano rumori. Con la mano tastò il pelame irsuto del dorso di Hopper; ma non era sicuro di sentire qualcosa sotto i piedi.
All’improvviso Hopper si fermò, costringendo anche lui a fermarsi. Perrin si guardò intorno... e chiuse di scatto gli occhi. Ora c’era una differenza. E lui sentiva qualcosa: un senso di nausea allo stomaco. Si costrinse ad aprire gli occhi e guardò in basso.
La scena era impossibile, a meno che lui e Hopper non si trovassero a mezz’aria. Perrin non vedeva niente di se stesso né del lupo, come se tutt’e due fossero disincarnati (a questo pensiero si sentì annodare le viscere) ma in basso, chiara come alla luce d’un migliaio di lanterne, si estendeva un’infinita serie di specchi, apparentemente sospesi nelle tenebre, ma piatti come su di un vasto pavimento. Si estendevano a perdita d’occhio in ogni direzione; ma proprio sotto i suoi piedi c’era uno spazio sgombro. Con della gente. All’improvviso Perrin udì le voci, come se si fosse trovato in mezzo a loro.
«Sommo Signore» mormorò un uomo «dove si trova questo posto?» Si guardò intorno, trasalì all’immagine riflessa migliaia di volte e da quel momento tenne lo sguardo fisso davanti a sé. Gli altri, rannicchiati intorno a lui, parevano ancora più impauriti. «Ero a letto a Tar Valon, Sommo Signore. Sono ancora a letto a Tar Valon! Che posto è questo? Sono impazzito?»
Alcuni, intorno a lui, indossavano giubbe eleganti, ricamate; altri, abiti meno eleganti; altri ancora parevano nudi o seminudi.
«Anch’io sto dormendo!» quasi gridò un uomo nudo. «A Tear. Ricordo d’essere andato a letto, con mia moglie!»
«E io sto dormendo a Illian» disse, scosso, un uomo in vesti rosso e oro. «So di dormire. È assurdo. So di sognare. Ma è impossibile. Dove sono, Sommo Signore? Sei realmente venuto a me?»
Un uomo dai capelli scuri fronteggiava il gruppetto; vestiva tutto di nero, con trine argentee al collo e ai polsi. Di tanto in tanto si toccava il petto, come se gli dolesse. Lo spiazzo era vividamente illuminato, anche se la luce proveniva da fonti invisibili; eppure l’uomo pareva ammantato d’ombra. Le tenebre lo avvolgevano, lo accarezzavano.