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Zarine seguì con gli occhi Perrin che le passava accanto per andare a prua. Ai lati della nave l’acqua si arricciava come terreno contro un buon aratro. Perrin pensò ai sogni e agli Aiel, alle visioni di Min e ai falchi. Aveva male al petto. La vita non era mai stata per lui così ingarbugliata.

Rand si svegliò dal sonno di sfinimento, si alzò a sedere, ansimando, e scostò il mantello usato come coperta. Il fianco gli doleva, la vecchia ferita riportata a Falme gli pulsava. Il fuoco si era ridotto a braci con solo qualche fiammella tremolante, ma bastava ancora a far muovere le ombre. “Quello era Perrin” pensò Rand. “Era proprio lui, non un sogno! Ho rischiato di ucciderlo. Luce santa, devo stare attento!"

Rabbrividì; prese da terra un ramo di quercia e si mosse per metterlo sulle braci. Lì, nelle colline del Murandy, non lontano dal Manetherendrelle, gli alberi erano radi, ma lui aveva trovato legna sufficiente per il fuoco, rami caduti da tempo ma non ancora marci. Prima che il pezzo di legno toccasse le braci, Rand si fermò. Udì l’avvicinarsi di cavalli, una decina, a passo lento. Si disse di usare prudenza: non poteva permettersi altri errori.

I cavalli deviarono in direzione del fuoco morente, entrarono nel cerchio di luce e si fermarono. Le ombre nascondevano i cavalieri, ma quasi tutti parevano uomini dal viso duro, con elmo rotondo e lunghi farsetti di cuoio rivestiti di dischi metallici sovrapposti come scaglie di pesce. C’era anche una donna dai capelli quasi grigi e dall’aria pratica. Indossava una veste scura di lana comune, ma di ottimo taglio, con una spilla d’argento a forma di leone. Un mercante, parve a Rand: aveva visto altre come lei, fra quelli che venivano nei Fiumi Gemelli a comprare tabacco e lana. Un mercante e la sua scorta.

Si alzò, ripromettendosi di fare attenzione, di non commettere un altro errore.

«Hai scelto un buon posto per il campo, giovanotto» disse la donna.

«L’ho usato spesso anch’io nei miei viaggi a Remen. Qui vicino c’è una piccola sorgente. Mi auguro che non ti dispiaccia, se lo dividiamo con te.»

«Le guardie già smontavano, si aggiustavano il cinturone, allentavano la cinghia della sella.»

«Per niente» rispose Rand. Con due passi si avvicinò, balzò in aria, roteò... Lanugine di cardo nel turbine... la spada col marchio dell’airone, fatta di fuoco, e spiccò dal busto la testa della donna, prima ancora che la sorpresa le si dipingesse sul viso: lei era la più pericolosa.

Atterrò, mentre la testa della donna rotolava giù dalla groppa del cavallo. Le guardie gridarono e impugnarono la spada, urlarono nel rendersi conto che la spada di Rand bruciava. Rand danzò fra di loro, nelle figure insegnategli da Lan, e capì che avrebbe potuto ucciderli tutt’e dieci anche con acciaio normale; ma la lama che impugnava faceva parte di lui. L’ultimo uomo cadde; lo scontro era stato tanto simile a un allenamento, che Rand aveva già iniziato a rimettere nel fodero la spada, Ripiegare il ventaglio, prima di ricordare che non aveva alcun fodero e che, se l’avesse avuto, quella spada l’avrebbe incenerito al semplice tocco.

Lasciò svanire la spada e si girò a esaminare i cavalli. Quasi tutti erano scappati, alcuni però poco lontano; l’alto castrone della donna era rimasto lì, roteava gli occhi e nitriva nervosamente. Il cadavere decapitato, disteso al suolo, aveva mantenuto la stretta sulle redini e obbligava il cavallo a tenere bassa la testa.

Rand liberò le redini, si soffermò solo a raccogliere le sue cose e montò in sella. Doveva fare attenzione, pensò, mentre dava un’occhiata ai cadaveri; e non commettere errori.

Era ancora pieno del Potere, del flusso di Saidin, più dolce del miele, più maleodorante della carne putrefatta. All’improvviso lo incanalò... senza capire realmente cosa facesse, né come, ma con l’impressione di fare la cosa giusta... e sollevò i cadaveri. Li dispose in fila davanti a sé, inginocchiati, faccia a terra.

«Se sono davvero il Drago Rinato» disse, rivolto ai cadaveri «questa è la posizione giusta, no?» Si staccò a malincuore da Saidin. Se l’avesse abbracciato troppo a lungo, non sarebbe più riuscito a tenere lontano la pazzia. Ridacchiò di storto. Forse ormai era troppo tardi per tenerla lontano.

Corrugò la fronte e scrutò la fila di cadaveri: era sicuro che ci fossero solo dieci uomini, ma la fila ne comprendeva undici, uno dei quali senza armatura, ma con un pugnale ancora stretto fra le dita.

«Hai scelto la compagnia sbagliata» disse all’undicesimo.

Girò il castrone e lo lanciò al galoppo nella notte. Doveva percorrere ancora molta strada, ma intendeva arrivare a Tear per la via più diretta, a costo di sfiancare cavalli e rubarne altri. Avrebbe messo fine a quella storia. L’allettamento. L’esca. L’avrebbe fatta finita! Callandor. La spada lo chiamava.

37

Fuochi nel Cairhien

Egwene ricambiò con un cenno il rispettoso inchino del marinaio che le passò accanto, scalzo, per andare a tirare una gomena che pareva già ben tesa, ma forse leggermente fuori posto, a giudicare da come si moveva una delle grosse vele quadrate. Mentre tornava verso il capitano fermo accanto al timoniere, il marinaio ripeté l’inchino; Egwene lo ricambiò ancora e riportò l’attenzione alla riva boscosa del Cairhien, che meno di venti braccia d’acqua separavano dalla Gru Azzurra.

In quel momento un villaggio scivolava via... o quello che un tempo era un villaggio. Metà delle case erano soltanto cumuli fumanti di macerie da cui sporgevano camini. Nelle altre, le porte sbattevano al vento; pezzi di mobilio, vestiti, stoviglie ingombravano la via di terra battuta, sparsi come rifiuti gettati via. Nel villaggio non si moveva anima viva, a parte un cane mezzo morto di fame che non si curò della nave e trotterellò fuori vista dietro le macerie di quella che pareva una locanda. Egwene non poteva vedere scene del genere senza provare un senso di nausea, ma cercò di mantenere la spassionata serenità che pensava dovesse avere un’Aes Sedai. Non ne trasse gran giovamento. Al di là del villaggio si alzava un denso pennacchio di fumo. Distante forse quattro miglia, stimò Egwene.

Non era la prima colonna di fumo che vedeva, da quando l’Erinin aveva iniziato a scorrere lungo il confine del Cairhien, né il primo villaggio in quelle condizioni. Almeno stavolta non c’erano cadaveri in vista. Spesso il capitano Ellisor era costretto a costeggiare la riva, a causa dei banchi di fango che in quel tratto del fiume cambiavano posizione, ma Egwene non aveva ancora visto un’anima.

Villaggio e pennacchio scivolarono alle spalle della nave, ma già una nuova colonna di fumo compariva più avanti, a maggiore distanza dalla riva. La foresta si diradava: frassini, ericacee e sambuchi lasciavano posto a salici, betulle, querce e altri alberi che Egwene non riconobbe.

Il vento le afferrò il mantello, ma lei lasciò che svolazzasse e gustò l’aria fredda e pulita, la libertà d’indossare abiti marrone anziché bianchi, anche se non erano stati la sua prima scelta. Tuttavia veste e mantello erano d’ottima lana e di buon taglio.

Passò un altro marinaio e le rivolse un inchino. Egwene portava alla destra l’anello col Gran Serpente e questo giustificava la quantità d’inchini, dal momento che capitano ed equipaggio erano nati e cresciuti a Tar Valon.

Nynaeve era convinta d’essere l’unica delle tre abbastanza matura da poter passare per Aes Sedai agli occhi della gente. Ma si sbagliava. Egwene aveva vinto la discussione ed era pronta ad ammettere che quel pomeriggio, al Porto Meridionale, nel salire a bordo della Gru Azzurra lei ed Elayne avevano ricevuto occhiate di stupore e che il capitano Ellisor aveva inarcato le sopracciglia fin quasi all’attaccatura dei capelli, se gliene fossero rimasti, ma si era mostrato tutto sorrisi e inchini.