Avendoraldera, secondo una lezione di Verin, era una piantina ricavata dallo stesso Albero della Vita, portata a Cairhien circa quattrocento anni prima, come dono di pace degli Aiel, gesto senza precedenti, unito al diritto d’attraversare il Deserto, concesso solo a venditori ambulanti, menestrelli e Tuatha’an. Gran parte della ricchezza del Cairhien derivava dal commercio dell’avorio, dei profumi, delle spezie e soprattutto della seta, tutte mercanzie provenienti dalle terre al di là del Deserto. Neppure Verin aveva idea di come gli Aiel avessero ottenuto un alberello di Avendesora (intanto gli antichi libri dicevano chiaramente che l’albero non produceva semi; e poi nessuno sapeva dove si trovasse, a parte alcune indicazioni in certe storie, chiaramente false; ma di sicuro l’Avendesora non aveva niente a che fare con gli Aiel) né sapeva come mai gli Aiel avessero “diviso l’acqua” con i cairhienesi o insistessero perché sulle carovane di mercanti sventolasse la bandiera con la foglia trilobata dell’Avendesora.
Di malavoglia Egwene ammise di capire come mai gli Aiel avessero dato inizio a una guerra, dopo che re Leman aveva abbattuto il loro dono per farsi fare un trono diverso da tutti gli altri. Il Peccato di Laman, l’aveva udito definire. Secondo Verin, non solo il commercio cairhienese attraverso il deserto era cessato allo scoppio della guerra, ma ora i cairhienesi che si avventuravano nel territorio Aiel non facevano più ritorno. Secondo Verin, si diceva che fossero “venduti come animali” nelle terre al di là del Deserto, ma neppure lei capiva come si potesse vendere un uomo o una donna.
«Egwene» disse Elayne «sai chi dev’essere Colui Che Viene con l’Alba, vero?»
Fissando la schiena di Nynaeve, ancora un bel tratto più avanti, Egwene scosse la testa ("Non avrà intenzione di correre fino a Jurene?") e subito si bloccò. «Non alluderai a...»
«Proprio a lui» disse Elayne. «Non conosco molto le Profezie del Drago, ma ricordo qualche brano: “Nascerà sulle pendici di Montedrago, da una fanciulla maritata a nessun uomo". Egwene, Rand ha davvero l’aspetto fisico di un Aiel. Be’, assomiglia anche a Tigraine come è ritratta nei quadri, ma Tigraine scomparve prima che lui nascesse e non penso che possa essere stata sua madre. Secondo me, la madre di Rand era una Fanciulla della Lancia.»
Egwene riprese a camminare a passo svelto e ripassò tutto ciò che sapeva della nascita di Rand. Era stato allevato da Tam al’Thor, dopo la morte di Kari al’Thor; però, se Moiraine non aveva mentito, quei due non erano i veri genitori. A volte Nynaeve pareva a conoscenza di un segreto sulla nascita di Rand... ma tanto non sarebbe riuscita a cavarglielo neppure con le pinze.
Raggiunsero Nynaeve... Egwene accigliata con i propri pensieri, Nynaeve con lo sguardo fisso avanti a sé verso Jurene e l’ipotetica nave, mentre Elayne osservava perplessa le altre due, che parevano due bambine imbronciate per chi dovesse prendere la fetta di dolce più grossa.
Dopo un poco Elayne disse: «Te la sei cavata molto bene, Nynaeve. La Guarigione e anche il resto. Non credo che abbiano mai dubitato che tu non sei Aes Sedai. E che non lo siamo pure noi, grazie a te.»
«Hai fatto un ottimo lavoro» disse Egwene, dopo qualche secondo. «Per la prima volta ho visto cosa si fa durante una Guarigione. Al confronto, fare fulmini pare mescolare farina d’avena.»
Nynaeve sorrise, sorpresa. «Grazie» mormorò e diede ai capelli di Egwene un piccolo strattone, come soleva fare quando l’altra era bambina.
"Non sono più una bambina” pensò Egwene. L’istante passò con la rapidità con cui era venuto e continuarono di nuovo in silenzio. Elayne sospirò forte.
Percorsero ancora un miglio o poco più, rapidamente, malgrado le deviazioni per girare intorno a qualche boschetto lungo la riva del fiume. Nynaeve pretese che stessero ben lontano dagli alberi. Egwene ritenne sciocco pensare che nei boschetti fossero nascosti altri Aiel, ma le deviazioni verso l’entroterra non allungavano di molto il percorso, perché i boschetti erano assai piccoli.
Elayne però teneva d’occhio gli alberi e fu l’unica a gridare a un tratto: «Attente!»
Egwene girò di scatto la testa: da dietro gli alberi erano sbucati alcuni uomini che roteavano fionde. Si protese verso Saidar, ma fu colpita alla testa e sprofondò nel buio.
Egwene ondeggiava e sentiva qualcosa muoversi sotto di lei. Al posto della testa aveva una massa di dolore. Alzò la mano per toccarsi le tempie, ma qualcosa le penetrò nel polso e le impedì il gesto.
«...Meglio che stare là distesi per tutto il giorno ad aspettare il buio» disse un uomo dalla voce rauca. «Chi può dire se un’altra nave passerà così vicino? E non mi fido della barca. Fa acqua.»
«Spera che Adden ti creda, quando gli dirai d’avere visto quegli anelli e di avere cambiato decisione per questo» disse un altro. «Vuole ricchi carichi, non donne.»
Il primo borbottò qualcosa di triviale, alludendo a che cosa Adden poteva farsene, della barca piena di falle e anche dei carichi.
Egwene aprì gli occhi. Puntini argentei le danzarono davanti. Sotto di lei scorreva il terreno: era legata di traverso sulla groppa d’un cavallo, con polsi e caviglie collegati da una corda che passava sotto la pancia dell’animale.
Era ancora giorno. Egwene piegò il collo per guardarsi intorno. Era circondata da uomini a cavallo, rozzamente vestiti, così numerosi che non riuscì a stabilire se anche Nynaeve e Elayne erano state catturate. Alcuni indossavano parti d’armatura — un elmo ammaccato, un pettorale con qualche intaccatura, un farsetto a scaglie metalliche — ma per la maggior parte portavano giubbe non pulite da mesi. Dal puzzo, anche gli uomini non si lavavano da mesi. Tutti portavano la spada, appesa alla cintola o sulla schiena.
Egwene fu invasa dalla rabbia e dalla paura, ma soprattutto dalla rabbia. Non voleva essere prigioniera! Non voleva essere legata! Si protese verso Saidar e le parve che le scoperchiassero la testa, tanto sentì male; riuscì a stento a soffocare un gemito.
Il cavallo si fermò un momento, fra grida e cigolio di cardini arrugginiti; poi proseguì ancora un poco e gli uomini cominciarono a smontare. Quando si spostarono, Egwene riuscì a vedere in parte dove si trovava. Una palizzata di tronchi circondava la cima d’una vasta montagnola; uomini armati d’arco montavano la guardia lungo un camminamento di legno che permetteva appena di guardare al di sopra dei tronchi rozzamente tagliati. Una baracca di tronchi, bassa e priva di finestre, pareva costruita nel terriccio ammonticchiato contro la palizzata. Non c’erano altre costruzioni, oltre alcune tettoie a una falda. Senza contare gli uomini e i cavalli appena entrati, nello spiazzo c’erano fuochi di cottura, cavalli impastoiati e altri uomini sporchi. In tutto, forse un centinaio. Capre, maiali e polli in gabbia riempivano l’aria di belati e grugniti e chioccolii che si mescolavano alle grida rauche e alle risate, in un frastuono che le trapassava la testa.
Scoprì Nynaeve e Elayne, legate come lei a testa in giù su cavalli non sellati. Nessuna delle due si muoveva: la treccia di Nynaeve strusciava per terra a ogni movimento del cavallo. Egwene vide svanire la piccola speranza che una delle altre due fosse in libertà e potesse aiutarle a fuggire. Luce santa, non poteva sopportare di nuovo la prigionia! Con cautela provò di nuovo a toccare Saidar. Stavolta il dolore fu meno intenso — come se qualcuno le avesse semplicemente fatto cadere una pietra sulla testa — ma frantumò il vuoto, prima ancora che lei potesse pensare anche solo a una rosa.
«Quella è sveglia!» gridò un uomo, con voce impaurita.
Egwene cercò di restare inerte e di non sembrare minacciosa. Luce santa, come potevano considerarla una minaccia, così legata come un sacco di farina? Ma doveva guadagnare tempo. «Non ti farò niente» disse all’uomo dal viso sudato che arrivò di corsa. Almeno, cercò di dirglielo: qualcosa la colpì di nuovo sulla testa e l’oscurità la travolse in un’ondata di nausea.