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Udì scricchiolio di stivali sul selciato e si acquattò dietro un cespuglio contro il muro. Passarono due guardie dal lungo colletto bianco penzolante sulla piastra pettorale. Non guardarono dalla sua parte e Mat sorrise: fortuna, solo un po’ di fortuna, e nessuno l’avrebbe visto, finché non avesse consegnato a Morgase la maledetta lettera.

Attraversò come un’ombra il giardino, quasi desse la caccia ai conigli selvatici, rimanendo immobile dietro un cespuglio o contro un tronco, appena udiva rumore di passi. Altre due coppie di soldati passarono nei vialetti, l’ultima a meno di quattro spanne da lui. Mentre scomparivano fra le piante in fiore e gli alberi, Mat raccolse una stellardente rosso vivo e con un sorriso se la infilò fra i capelli. Percorrere di nascosto il giardino era più divertente che rubare crostate di mele in un giorno di festa e anche più facile. Le donne tenevano sempre d’occhio ciò che avevano tolto dal forno; quegli stupidi soldati non alzavano mai gli occhi dalle pietre del lastrico.

In breve si ritrovò contro il muro del palazzo stesso e si mise a cercare una porta, passando dietro una fila di graticci che sostenevano un roseto dai fiori bianchi. All’altezza della sua testa c’erano ampie finestre ad arco; ma, se l’avessero sorpreso, avrebbe avuto una certa difficoltà a spiegare il motivo per cui si arrampicava da una finestra, anziché entrare da una porta. Comparvero altri due soldati e Mat rimase immobile: sarebbero passati a sei spanne da lui. Dalla finestra sopra la sua testa provenivano delle voci: due uomini, di cui riusciva a distinguere le parole.

«...In viaggio verso Tear, Padrone.» Il tono pareva spaventato e ossequioso.

«Lasciamo che rovinino i suoi piani, se possono.» La seconda voce era più profonda e più forte, tipica di chi è abituato a dare ordini. «Se tre ragazze prive d’addestramento frustrano i suoi piani, ben gli sta. Era uno sciocco e non è cambiato. Notizie del ragazzo? Lui può distruggerci tutti.»

«No, Padrone. È scomparso. Però, Padrone, una delle tre ragazze è la figlia di Morgase.»

Mat si girò a mezzo, si dominò. I soldati si avvicinavano e non avevano notato il movimento improvviso dietro il fitto roseto. “Forza, idioti, passate!" pensò Mat. “Così vedo chi è quel maledetto!" Aveva perso alcune battute della conversazione.

«...È stato troppo impaziente, da quando ha riottenuto la libertà» diceva in quel momento la voce più profonda. «Non ha mai capito che i piani migliori hanno bisogno di tempo per maturare. Vuole il mondo in un giorno e Callandor per soprammercato. Il Sommo Signore se lo porti! Può catturare la ragazza e provare a servirsene. Questo intralcerebbe i miei piani.»

«Sì, Padrone. Devo ordinare che la portino fuori di Tear?»

«No. Se venisse a saperlo, quello sciocco la riterrebbe una mossa contro di lui. E poi, nessuno può dire cosa tiene d’occhio, oltre la spada. Fai in modo che la ragazza muoia senza tanto chiasso, Comar. Che la sua morte passi del tutto inosservata.» La sua risata fu un brontolio corposo. «Stavolta, quelle ignoranti megere della Torre troveranno duro farla ricomparire. Provvedi rapidamente. Prima che lui abbia il tempo di catturarla.»

I due soldati erano quasi di fronte a lui: con la forza del pensiero Mat cercò di farli muovere.

«Padrone, l’impresa potrebbe rivelarsi difficile» disse l’altra voce, in tono insicuro. «Sappiamo che lei è in viaggio per Tear, ma la nave su cui era imbarcata è stata trovata a Aringill e tutt’e tre erano già scese a terra. Non sappiamo se abbia preso un’altra nave o proseguito a cavallo. Se arriva a Tear, potrebbe essere difficile ritrovarla, Padrone. Forse, se tu...»

«C’è soltanto gente stupida al mondo, ora?» replicò la voce profonda. «Cosa credi, che a Tear io possa muovermi senza che lui lo sappia? Non intendo combatterlo, non ancora e non adesso. Portami la testa della ragazza, Comar. Portami la testa di tutt’e tre, altrimenti mi supplicherai di tagliarti la tua!»

«Sì, Padrone. Sarà come tu vuoi. Sì. Sì.»

I soldati passarono, con scricchiolio di cuoio sul selciato, senza guardare né a destra né a sinistra. Mat aspettò solo di vedere la loro schiena, prima di spiccare un balzo, aggrapparsi al largo davanzale di pietra e sollevarsi quanto bastava a guardare dalla finestra.

Notò appena il tappeto frangiato del Tarabon, che da solo valeva una grossa borsa d’argento. In quel momento la porta dai larghi battenti intagliati si chiudeva. Un uomo alto, con spalle ampie e torace profondo che tendeva la seta verde della giubba ricamata in argento, teneva puntati sulla porta gli occhi azzurro scuro. Aveva una corta barba nera, con una striatura bianca sul mento. Tutto sommato, aveva l’aria da duro, da uomo avvezzo a dare ordini.

«Sì, Padrone» disse a un tratto. Mat, per la sorpresa, quasi cadde dal davanzale: aveva pensato che fosse lui, l’uomo dalla voce profonda; invece aveva udito la voce timorosa. Non timorosa, adesso, ma sempre la stessa. «Sarà come tu vuoi, Padrone» continuò, amaro, l’uomo. «Taglierò io stesso la testa alle tre ragazze. Appena riuscirò a trovarle!» A passo deciso varcò la porta e Mat si lasciò cadere a terra.

Per un momento rimase accucciato dietro il roseto. Qualcuno, nel palazzo, voleva la morte di Elayne e, in second’ordine, anche di Egwene e di Nynaeve. Senza dubbio si trattava di loro. Ma cosa ci facevano, a Tear?

Prese la lettera dell’Erede e la guardò, accigliato. Forse, con quella lettera, Morgase gli avrebbe creduto. Poteva descrivere uno dei due uomini. Ma doveva sbrigarsi: quel tipo poteva partire per Tear, prima che lui trovasse Morgase; e qualsiasi cosa la regina avesse fatto dopo, non era detto che potesse fermarlo.

Inspirò a fondo, passò fra due tralicci di rose, rimediando solo qualche graffio, e si avviò per il vialetto, dietro i soldati. Tenne davanti a sé la lettera di Elayne, in modo che fosse ben visibile il sigillo a forma di giglio dorato, e ripeté a mente le parole che intendeva dire. Quando si era aggirato di nascosto nel giardino, le guardie comparivano come funghi dopo la pioggia; ma ora attraversò quasi tutto il giardino senza vederne nessuna. Passò davanti a diverse porte. Non era una buona idea entrare senza permesso nel palazzo reale — le guardie potevano fare prima cose spiacevoli e poi ascoltare — ma cominciava proprio a pensare di varcare una porta, quando questa si aprì e ne uscì un giovane ufficiale a testa scoperta, con un solo nodo d’oro sulla spallina.

L’ufficiale portò subito la mano alla spada e ne sguainò una spanna, prima che Mat potesse spingergli sotto il naso la lettera. «Elayne, Erede dell’Andor, manda a sua madre, la regina Morgase, questa lettera, capitano» disse. Tenne la lettera in modo che il sigillo risaltasse.

L’ufficiale guardò rapidamente a destra e a sinistra, come se cercasse altri, ma non perdette mai d’occhio Mat. «Come sei entrato in questo giardino?» domandò. Non sguainò del tutto la spada, ma neppure la rimise nel fodero. «Elber è alla porta principale. È un idiota, ma non permetterebbe a nessuno di gironzolare nel palazzo.»

«Un grassone con occhi da topo?» disse Mat. Subito maledisse la propria linguaccia, ma l’ufficiale annuì seccamente e quasi sorrise, senza però allentare la vigilanza. «Quando ha saputo che venivo da Tar Valon, si è arrabbiato; non mi ha dato l’opportunità di mostrare la lettera né di fare il nome dell’Erede. Ha detto che m’avrebbe fatto arrestare, se non andavo via subito. Così ho scalato il muro. Ho promesso di consegnare la lettera alla regina Morgase in persona, capisci, capitano? Mantengo sempre le promesse. Vedi il sigillo?»