A furia di tentativi, Egwene aveva imparato qualche regola del Tel’aran’rhiod (anche questo Mondo dei Sogni, questo Mondo Invisibile, aveva le proprie regole, per quanto bizzarre, ma lei era sicura di non conoscerne neppure la decima parte) e un modo per andare dove voleva. Chiuse gli occhi e svuotò la mente come avrebbe fatto per abbracciare Saidar. Non era altrettanto facile, perché il bocciolo di rosa continuava a cercare di formarsi, e lei continuava a percepire la Vera Fonte, a desiderare d’abbracciar la; ma doveva riempire con qualcosa di diverso il vuoto. Si raffigurò il Cuore della Pietra come l’aveva visto in quei sogni, fino all’ultimo particolare. Le gigantesche colonne di granito levigato. Le pietre del pavimento, consunte dai secoli. La cupola, molto più in alto. La spada di cristallo, intoccabile che ruotava lentamente a mezz’aria, elsa in basso. Quando l’immagine fu così reale da darle l’impressione di poterla toccare, aprì gli occhi e si trovò lì nel Cuore della Pietra. O nella controparte esistente nel Tel’aran’rhiod.
C’erano le colonne, c’era Callandor. Intorno alla spada scintillante fioche e incorporee come ombre, tredici donne, sedute a gambe incrociate fissavano le rotazioni di Callandor. Liandrin dai capelli color miele girò la testa, puntò su Egwene gli occhi grossi e scuri e dischiuse in un sorriso le labbra simili a petali di rosa.
Ansimando, Egwene si alzò a sedere, con movimento così brusco da rischiare di cadere dal letto.
«Cosa c’è?» domandò Elayne. «Cosa ti è accaduto? Sembri spaventata.»
«Hai appena chiuso gli occhi» disse piano Nynaeve. «Per la prima volta sei tornata senza bisogno che ti svegliassimo. È accaduto qualcosa vero?» Si tirò la treccia. «Stai bene?»
"Come ho fatto a tornare?" si domandò Egwene. Non sapeva neppure che cosa faceva, Luce santa! Capì che voleva solo rimandare ciò che doveva dire. Si tolse dal collo la cordicella e tenne sul palmo l’anello col Gran Serpente e il ter’angreal. «Ci aspettano» disse alla fine. Non occorreva precisare chi. «Secondo me, sanno che siamo a Tear.»
Fuori, la tempesta si scatenò sulla città.
La pioggia tamburellava sul ponte sopra di loro. Mat fissò il tavoliere posto tra lui e Thom, ma non riuscì a concentrarsi sulla partita, anche se la posta era un marco andorano d’argento. Il tuono rombò e il fulmine balenò dalle finestrelle della nave. Quattro lanterne illuminavano la cabina del capitano del Rondone. La maledetta nave era veloce come l’uccello da cui prendeva il nome, ma impiegava ugualmente troppo tempo. La nave sobbalzò una volta, due: il movimento parve cambiare. “Il capitano farà meglio a non farci finire in un maledetto banco di sabbia” pensò Mat. “Se non strappa alla sua bagnarola la massima rapidità possibile, gli caccerò in gola l’oro che gli ho dato!" Sbadigliò (non aveva più dormito bene, dopo la partenza da Caemlyn: era troppo preoccupato) e pose nell’intersezione di due linee un sassolino bianco: in tre mosse avrebbe catturato quasi un quinto dei sassolini neri di Thom.
«Saresti un buon giocatore, ragazzo» disse il menestrello, senza togliersi di bocca la pipa e sistemando il proprio sassolino «se ci mettessi testa.» Il tabacco aveva profumo di foglie e di noci.
Mat allungò la mano per prendere un sassolino dal suo mucchietto, poi batté le palpebre e lo lasciò dov’era. Nelle stesse tre mosse, i sassolini di Thom avrebbero circondato più d’un terzo dei suoi. Non aveva previsto la mossa e non vedeva difesa. «Hai mai perduto una partita?» gli domandò. «Perdi, qualche volta?»
Thom si tolse di bocca la pipa e con le nocche si lisciò i baffi. «No, da un bel po’ di tempo. Morgase mi batteva una volta su due. Si dice che i buoni comandanti di soldati e i buoni giocatori del Grande Gioco siano abili anche nei sassolini. Lei gioca benissimo il Grande Gioco e non dubito che sarebbe anche un buon comandante in battaglia.»
«Non ti andrebbe qualche altra partita a dadi? Con i sassolini si tira troppo per le lunghe.»
«Preferisco probabilità di vittoria superiori a un lancio su dieci» rispose Thom, caustico.
Mat balzò in piedi: la porta si era spalancata ed era entrato il capitano Derne. L’uomo, dal viso quadrato, si tolse il mantello, scosse la pioggia e borbottò imprecazioni. «La Luce mi secchi le ossa, non so perché vi ho noleggiato il Rondone. Proprio a voi, che esigete la massima velocità possibile anche nella notte più buia o sotto la pioggia a dirotto. Velocità, sempre la maledetta velocità! A quest’ora potevamo finire cento volte in un maledetto banco di sabbia!»
«Volevi l’oro» rimbeccò Mat, duro. «Hai detto che quest’ammasso d’assi vecchie era veloce, Derne. Quando arriviamo a Tear?»
Il capitano sorrise a denti stretti. «Ormeggiamo adesso. E mi brucino come un maledetto campagnolo, se mi lascio incantare un’altra volta! Dov’è il resto del mio oro?»
Mat andò a scrutare dall’oblò. Nella cruda luce dei lampi scorse un molo di pietra bagnata e poco d’altro. Pescò di tasca il secondo borsello d’oro e lo lanciò a Derne. Tanto, lungo i fiumi c’era sempre chi giocava a dadi. «Era ora!» sbottò. E pregò la Luce che non fosse già troppo tardi.
Aveva infilato nella sacca di cuoio gli abiti di ricambio e le coperte; si appese a una spalla la sacca e all’altra il rotolo di fuochi d’artificio; coprì il tutto col mantello, che però sul davanti restava aperto. Meglio che a bagnarsi fosse lui e non i fuochi. Lui si sarebbe asciugato, i fuochi no, come aveva dimostrato la prova fatta con un secchio d’acqua. Forse il padre di Rand aveva ragione: lui aveva sempre creduto che il Consiglio del Villaggio non facesse esplodere i fuochi artificiali nelle notti piovose perché lo spettacolo risultava migliore in quelle asciutte.
«Non sei ancora pronto a vendere quella robaccia?» disse Thom, mettendosi il manto da menestrello in modo da proteggere le custodie dell’arpa e del flauto; sopra, si mise in spalla il rotolo di coperte e il fagotto con gli indumenti di ricambio.
«No, finché non ho scoperto come funzionano. E poi, pensa al divertimento, quando li accenderò.»
Thom rabbrividì. «Purché tu non li accenda tutti insieme, ragazzo. Purché non li tiri nel camino durante la cena. Ne saresti capace, da come ti sei comportato finora. Sei fortunato che il capitano non ci abbia gettati fuori bordo, due giorni fa.»
«Non l’avrebbe mai fatto» rise Mat «con quel sacchetto di monete in palio. Eh, Derne?»
Derne faceva saltellare sulla mano il sacchetto di monete. «Prima non l’ho chiesto, ma ormai mi hai dato l’oro e non te lo riprenderai. Perché tanta fretta?»
«Una scommessa, Derne» rispose Mat, con uno sbadiglio. Prese il bastone dalla punta ferrata, pronto ad andarsene. «Una scommessa.»
«Una scommessa!» ripeté Derne, fissando il sacchetto ben gonfio. L’altro, esattamente uguale, era chiuso a catenaccio nel suo scrigno. «Riguarderà un reame intero!»
«Più d’un reame» disse Mat.
La pioggia torrenziale inondava il ponte, con tanta forza che solo i lampi rendevano visibile di tanto in tanto la passerella. Però, su per una via, si scorgevano luci alle finestre. Ci sarebbero state locande, là. Il capitano non era salito sul ponte per vederli sbarcare e nessun uomo dell’equipaggio era rimasto fuori alla pioggia. Mat e Thom scesero da soli sul molo di pietra.
Mat sprofondò nel fango della via e imprecò, ma non poteva farci niente: continuò a camminare a passi lunghi e rapidi, con gli stivali e l’estremità del bastone che a ogni passo s’incollavano nel fango. Anche sotto la pioggia, l’aria puzzava di pesce marcio.
«Troveremo una locanda» disse ad alta voce, per farsi udire «e poi andrò fuori a dare un’occhiata.»