Non voleva fare niente di complicato o fantasioso. Le cose semplici gli parevano le migliori, al momento. Cominciò ad arrotondare gli spigoli della barra, poi martellò la parte centrale in un’ampia lama, spessa in fondo quasi quanto l’originale, ma lunga un buon palmo e mezzo. Di tanto in tanto rimetteva il pezzo nelle braci, per mantenerlo di colore giallo chiaro; dopo un poco, passò a usare il secondo martello, pesante circa la metà dell’altro. Assottigliò la parte eccedente la lama, la piegò sul corno dell’incudine e la incurvò, in modo che a lavoro terminato vi si potesse applicare un manico di legno. Sistemò l’affilato tagliolo nell’apposito foro praticato sull’incudine e vi appoggiò il metallo arroventato. Con un secco colpo di martello tagliò l’utensile: sarebbe stato un arnese per scanalare, utilizzabile, fra le altre cose, per lisciare e livellare l’estremità delle doghe, dopo averle assiemate a forma di barile. Aveva avuto l’idea nel vedere che il fabbro faceva un raschietto.
Terminato il taglio a caldo, lasciò cadere nel barile della tempra salata il metallo rovente. L’acqua non salata dava una tempra più forte, per i metalli più duri, mentre l’olio dava quella più tenera, per i buoni coltelli. E per le spade, aveva sentito dire; ma non aveva mai fabbricato lame di spada.
Quando il metallo si fu raffreddato fino ad avere un colore grigio opaco, Perrin lo tolse dall’acqua e lo portò alle mole. Lavorò lentamente di pedale e diede alla lama una ripulita. Poi, con cura, riscaldò di nuovo la parte a lama. Stavolta il colore divenne più cupo, paglierino e poi bronzeo. Quando il color bronzo cominciò a risalire a ondate su per la lama, Perrin mise l’utensile da parte a raffreddare: solo allora avrebbe potuto affilarlo, Se l’avesse rimesso nell’acqua, avrebbe rovinato la tempra precedente.
«Un lavoro ben fatto» disse il fabbro. «Non hai sprecato un gesto. Cerchi lavoro? Gli apprendisti mi hanno appena lasciato, tutt’e tre, quegli stupidi sfaticati. Ho lavoro in abbondanza.»
Perrin scosse la testa. «Non so per quanto tempo mi tratterrò a Tear. Però mi piacerebbe lavorare ancora un poco, se non hai niente in contrario. Ne sento la mancanza. Potrei fare qualcosa che avrebbero fatto i tuoi apprendisti.»
Il fabbro sbuffò. «Sei molto più abile di quei fannulloni. Giravano a muso lungo e brontolavano per i brutti sogni, come se chiunque non faccia qualche brutto sogno, di tanto in tanto. Sì, puoi lavorare qui, finché ne hai voglia. Mi hanno ordinato dodici coltelli da lancio e tre asce da bottaio e un carpentiere più avanti in questa via ha bisogno di un martello da mortasa e... Troppo, per fare l’elenco. Comincia con i coltelli e vedremo a che punto saremo prima di sera.»
Perrin s’immedesimò nel lavoro e per un poco dimenticò ogni cosa, tranne il calore del metallo, i colpi del proprio martello e gli odori della forgia; ma ci fu un momento in cui alzò gli occhi e vide che il fabbro (Dermid Ajala, aveva detto di chiamarsi) si toglieva la veste di cuoio. Il cortile per la ferratura era già buio: la luce proveniva dalla forgia e da un paio di lampade. Zarine, seduta sopra un’incudine accanto a una forgia spenta, lo osservava.
«Così sei davvero un fabbro, fabbro» disse.
«Certo che lo è» intervenne Ajala. «Apprendista, dice; ma secondo me il lavoro fatto oggi ha la qualità del mastro. Colpi magnifici e più che fermi.» Perrin cambiò posizione, a disagio per il complimento, e il fabbro gli sorrise. Zarine li fissò, senza capire.
Perrin andò a riappendere al piolo la veste di cuoio e il grembiule. Appena si spogliò, sentì sulla schiena lo sguardo di Zarine: gli parve quasi che lei lo toccasse. Per un istante si sentì soffocare dal suo profumo d’erbe. Si mise in fretta la camicia, la infilò alla meglio nelle brache e indossò la giubba. Poi si girò e vide che Zarine aveva uno di quei sorrisini misteriosi che l’avevano sempre innervosito.
«Allora è questo che vuoi fare?» domandò la ragazza. «Tutta questa strada, solo per tornare fabbro?»
Ajala si bloccò nell’atto di chiudere la porta del cortile e tese l’orecchio
Perrin raccolse il pesante martello che aveva usato quel giorno, una testa di dieci libbre con un manico lungo quanto il suo braccio. Gli stava bene in pugno. Sembrava appropriato. Ricordò che il fabbro l’aveva guardato in faccia una volta e non aveva neppure battuto ciglio: per lui contava il lavoro, l’abilità con i metalli, non il colore degli occhi. «No» rispose, in tono triste. «Un giorno, mi auguro. Non adesso.» Si mosse per appendere alla parete il martello.
«Prendilo» disse Ajala. Si schiarì la voce. «Di solito non do via un buon martello, ma... Il tuo lavoro di oggi vale molto più di quel martello e forse il martello t’aiuterà ad arrivare a quel “giorno". Se ho mai visto una persona nata per impugnare il martello da fabbro, quella sei tu, amico. Perciò prendilo. Tientelo.»
Perrin chiuse la mano intorno al manico: pareva davvero fatto per lui. «Grazie» disse. «Non posso spiegare cosa significa per me.»
«Ricorda solo quel “giorno” amico. Ricordalo.»
Mentre uscivano, Zarine lo guardò. «Hai idea di quanto siano bizzarri gli uomini, fabbro?» disse. «No, non credo.» Allungò il passo e lo lasciò, con in mano il martello, a grattarsi la testa.
Nessuno, nella sala comune, gli rivolse una seconda occhiata, anche se aveva occhi gialli e un martello da fabbro in mano. Perrin salì in camera sua e per una volta ricordò d’accendere la candela. Faretra e ascia pendevano dallo stesso piolo. Perrin alzò l’ascia in una mano, il martello nell’altra. L’ascia, con la lama a mezzaluna e il massiccio puntale, pesava cinque libbre buone meno del martello, ma pareva dieci volte più pesante. Perrin la rimise nel gancio alla cintura e posò per terra il martello, manico contro la parete, sotto il piolo. I manici dell’ascia e del martello, due pezzi di legno d’uguale spessore, quasi si toccavano. Due pezzi di metallo di peso quasi uguale. Perrin rimase a lungo seduto sullo sgabello, a fissarli. Li fissava ancora, quando Lan sporse nella stanza la testa.
«Vieni, fabbro. Dobbiamo parlare.»
«Sono davvero un fabbro» disse Perrin.
Il Custode lo guardò, perplesso. «Non prendertela con me, fabbro. Se non sopporti più il tuo stesso peso, rischi di trascinarci tutti giù dalla montagna.»
«Sopporterò il mio peso» ringhiò Perrin. «Farò ciò che va fatto. Cosa vuoi?»
«Te, fabbro. Non hai sentito? Vieni, contadino.»
Nell’udire l’appellativo usato spesso da Zarine, Perrin si tirò rabbiosamente in piedi, ma Lan si era già girato. Perrin lo seguì nel corridoio, verso la parte anteriore della locanda, con l’intenzione di dire al Custode che ne aveva abbastanza di “fabbro” e “contadino", che si chiamava Perrin Aybara. Lan s’infilò nell’unica stanza da pranzo privata della locanda, prospiciente la via.
Perrin lo seguì. «E ora ascoltami bene, Custode. Io non...»
«Ascolta tu, Perrin» disse Moiraine. «Fai silenzio e ascolta.» Aveva viso liscio, ma occhi truci e tono sinistro.
Perrin non si era accorto che nella stanza ci fossero altri, a parte lui e il Custode, in piedi, appoggiato col braccio alla mensola del camino spento. Moiraine sedeva al tavolo posto al centro della stanza, un mobile semplice, di quercia nera. Le altre sedie, dall’alto schienale intagliato, erano vuote. Zarine, torva in viso, era appoggiata alla parete di fronte a Lan; Loial si era seduto per terra, perché nessuna sedia era adatta a un Ogier.
«Sono lieta che ti sia deciso a unirti a noi, contadino» disse Zarine, sarcastica. «Moiraine non ha voluto dire niente, prima del tuo arrivo. Ma ci guarda come se stia per decidere chi di noi morirà fra poco. Io...»