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Enormi, levigate colonne di granito rosso circondavano lo spiazzo dove lui si trovava, sotto un soffitto a cupola alto cento piedi o più. Il pavimento era di grandi lastre di pietra grigio chiaro, dura eppure consumata dai passi d’innumerevoli generazioni.

Proprio sotto il centro della cupola c’era il motivo dell’usura del pavimento: una spada sospesa a mezz’aria, con l’elsa in basso, in modo che chiunque avrebbe potuto impugnarla. Girava lentamente su se stessa, come sotto una leggera corrente d’aria. Ma non era una spada vera e propria: pareva di vetro, forse di cristallo, lama, elsa e guardia; raccoglieva la luce e la rifrangeva in migliaia di lampi e di barbagli.

Perrin avanzò verso la spada e protese la mano, come aveva fatto in ogni occasione precedente. Lo ricordava con chiarezza. L’elsa gli pendeva davanti al viso, a portata di mano. A una spanna dalla spada lucente, la mano si appiattì contro l’aria, come se avesse toccato pietra. Come lui sapeva che sarebbe avvenuto. Perrin spinse con forza, ma senza il minimo risultato, come se avesse spinto una parete. La spada girava e scintillava, a una spanna di distanza, ma fuori portata come se si trovasse dall’altra parte d’un oceano.

"Callandor." Perrin non fu sicuro se il bisbiglio gli era risuonato nella testa o se proveniva da fuori: parve echeggiare intorno alle colonne, lieve come brezza, insistente, da tutte le parti nello stesso tempo. "Callandor. Chi m’impugna, ha in mano il destino. Prendimi e inizia il viaggio finale."

Perrin arretrò d’un passo, spaventato all’improvviso: in precedenza non aveva mai udito quel bisbiglio. Già quattro volte aveva fatto quel sogno -anche in quel momento lo ricordava: quattro notti, una dopo l’altra — e per la prima volta era avvenuto un cambiamento.

"Arrivano i Deformi."

Questo era un bisbiglio diverso, proveniva da una fonte nota. Perrin sobbalzò come se fosse stato toccato da un Myrddraal. Fra le colonne c’era un lupo, un lupo di montagna, che gli arrivava quasi alla cintola, irsuto, bianco e grigio. Lo fissava, intento, con occhi gialli come quelli di Perrin stesso.

"Arrivano i Deformi. “

"No” gracchiò Perrin. “No! Non ti lascerò entrare! Non ti lascerò entrare!"

Artigliando l’aria, sì svegliò e si alzò a sedere nella capanna, tremante di paura, di freddo, di collera. «Non ti lascerò entrare» mormorò, con voce rauca.

"Arrivano i Deformi."

Il pensiero gli risuonò chiaramente nella testa, ma non era suo.

"Arrivano i Deformi, fratello."

5

Creature d’incubo

Perrin balzò dal letto, afferrò l’ascia e corse fuori, scalzo e seminudo, senza badare al freddo. La luna inargentava le nuvole: luce più che sufficiente per i suoi occhi, più che sufficiente per scorgere le sagome che scivolavano fra gli alberi da tutte le parti, sagome grosse quasi come Loial, ma con facce distorte, grugni e becchi, teste semiumane con corna e creste di piume, sagome furtive che si muovevano tanto su zoccoli e artigli quanto su piedi calzati di stivali.

Mentre Perrin apriva bocca per dare l’allarme, la porta della baracca di Moiraine si spalancò e Lan, spada in mano, uscì di corsa. «Trolloc!» gridò il Custode. «Svegliatevi, se ci tenete alla vita! Trolloc!»

Altre grida gli risposero: dalle baracche uscivano altri uomini, in camicia da notte, alcuni addirittura nudi, ma tutti con la spada in pugno. Con un ruggito animalesco i Trolloc si lanciarono all’attacco, accolti da armi d’acciaio e da grida di guerra: “Shienar!", “Il Drago Rinato!".

Lan era vestito di tutto punto — Perrin avrebbe scommesso che il Custode non aveva dormito — e si lanciò fra i Trolloc come se i suoi abiti di lana fossero un’armatura. Pareva danzare da uno all’altro, con movimenti fluidi come d’acqua o vento; e dove lui danzava, Trolloc urlavano e morivano.

Anche Moiraine era fuori nella notte e danzava la propria danza fra i Trolloc. L’unica sua arma evidente era una verga; ma dove toccava un Trolloc, lì spuntava sulla carne una linea di fiamma. Con l’altra mano Moiraine scagliava palle di fuoco scaturite dal nulla e i Trolloc ululavano, consumati dalle fiamme, e si contorcevano al suolo.

Un albero avvampò dalla chioma alle radici; poi un secondo, un terzo. I Trolloc urlarono alla luce improvvisa, ma non smisero di vibrare asce e spade ricurve come falci.

A un tratto Perrin vide Leya uscire con passo esitante dalla baracca di Moiraine, a metà strada verso l’altra parte della conca rispetto a lui, e non pensò più a niente. La Tuatha’an, con la schiena contro la parete di tronchi, si era portata la mano alla gola. La luce degli alberi in fiamme mostrava sul suo viso la sofferenza, l’orrore, la ripugnanza per quel massacro.

«Nasconditi!» le gridò Perrin. «Torna dentro, stai nascosta!» Il frastuono crescente degli scontri e le urla dei moribondi inghiottirono il suo grido. Perrin corse verso Leya. «Nasconditi, Leya!» gridò ancora. «Per amore della Luce, nasconditi!»

Davanti a lui si stagliò un Trolloc dal becco adunco al posto di bocca e naso, coperto dalle spalle alle ginocchia di maglia nera con punte metalliche; si muoveva su artigli da falco e vibrava una di quelle bizzarre spade ricurve. Puzzava di sudore, di polvere, di sangue.

Perrin si chinò per evitare il fendente e con un grido inarticolato vibrò l’ascia. Non sentiva più la paura: doveva raggiungere Leya, portarla in salvo... e il Trolloc gli bloccava la strada.

Il Trolloc cadde, ringhiando e scalciando. Perrin non sapeva dove l’aveva colpito, né se la creatura fosse moribonda o solo ferita. La scavalcò con un balzo e risalì di corsa il pendio.

Alberi in fiamme gettavano ombre rossastre per tutta la conca. Un’ombra guizzante accanto alla baracca di Moiraine si rivelò un Trolloc dal muso e corna da capro, che impugnava a due mani un’ascia: parve sul punto di gettarsi nella mischia, quando scorse Leya.

«No!» gridò Perrin. «Luce santa, no!» Le pietre gli scorticavano i piedi scalzi, ma lui non se ne accorse. Vide il Trolloc sollevare l’ascia. «Leyaaaaaaaa!»

All’ultimo momento il Trolloc girò su se stesso e vibrò l’ascia contro Perrin. Questi si abbassò di scatto e mandò un grido nel sentire l’acciaio graffiargli la schiena. Disperato, protese la mano, afferrò uno zoccolo caprino, tirò con tutte le sue forze. Il Trolloc perdette l’appoggio e cadde con un tonfo; ma, scivolando giù per il pendio, afferrò Perrin, con mani grosse il doppio del normale, e lo trascinò con sé a ruzzolare fino in fondo. Il puzzo di capro e d’acre sudore umano riempì le narici di Perrin. Braccia muscolose gli circondarono il torace, facendogli mancare l’aria; le costole scricchiolarono, sul punto di rompersi. Il Trolloc aveva lasciato cadere l’ascia, ma affondò nella spalla di Perrin i denti smussati da capro, quasi volesse sbranarlo. Perrin si lasciò sfuggire un gemito, mentre il dolore gli saettava lungo il braccio sinistro. I polmoni gli dolevano per mancanza d’aria, davanti agli occhi gli ballavano macchie scure; ma si accorse confusamente d’avere un braccio libero e di stringere ancora l’ascia. La impugnò appena sotto la lama, quasi fosse un martello, con la punta in alto. Con un ruggito, conficcò la punta nella tempia del Trolloc. Senza emettere grido la creatura si dimenò, spalancò le braccia, scagliò lontano Perrin. Solo per istinto quest’ultimo non mollò la presa sull’ascia, liberandola, mentre il Trolloc scivolava ancora più in basso, fra convulsioni d’agonia.

Per un momento Perrin rimase disteso e cercò di riprendere fiato. Sentiva sulla schiena il bruciore della scorticatura e l’umido del sangue. Si rialzò, senza badare al dolore alla spalla. «Leya?» chiamò.

Lei era sempre accovacciata davanti alla baracca, non più di dieci passi più in alto. Lo guardava con una tale espressione che Perrin quasi non riuscì a incrociare il suo sguardo.