Rand. Maledizione, come aveva fatto a dimenticarlo? Chissà dove si trovava. Chissà se stava bene. Sospirò tristemente e spalmò del burro sopra una fetta di pane ancora caldo. Chissà se Rand era già impazzito.
Se anche avesse saputo le risposte, non avrebbe potuto fare niente per aiutare Rand. E non era sicuro che avrebbe fatto qualcosa, anche se avesse potuto. Rand era in grado d’incanalare e Mat era cresciuto ascoltando storie di uomini che incanalavano, storie per spaventare i bambini. Storie che spaventavano anche gli adulti, perché alcune erano fin troppo vere. Scoprire che Rand poteva incanalare era stato come scoprire che il suo migliore amico torturava animali e uccideva bambini. Alla fine ci si credeva e allora era difficile considerarlo ancora un amico.
«Devo badare a me stesso» disse con rabbia. Si accorse con sorpresa che la caraffa era vuota: aveva bevuto tutto il vino. Allora si versò del latte. «Nynaeve e Egwene vogliono diventare Aes Sedai» continuò. «Rand segue Moiraine e si proclama il Drago Rinato. Solo la Luce sa cosa combina Perrin. Da quando ha cambiato il colore degli occhi, sembra impazzito. Devo badare a me stesso.» Maledizione, dei tre era l’ultimo ancora sano di mente.
Tar Valon. Era considerata a ragione la più ricca città del mondo ed era il centro dei commerci fra le Marche di Confine e il meridione, il centro del potere delle Aes Sedai. Ma lui non credeva di poter convincere un’Aes Sedai a giocare d’azzardo... e se ne avesse convinta una, non si sarebbe fidato dei dadi e delle carte. Ma di sicuro a Tar Valon c’erano mercanti pieni d’argento e d’oro. Doveva fermarsi per qualche giorno, la città stessa ne valeva la pena. Si era allontanato parecchio dai Fiumi Gemelli, ma non ricordava niente delle grandi città, a parte vaghe immagini di Caemlyn e di Cairhien. Aveva sempre desiderato visitare una grande città.
«Ma non piena di Aes Sedai» brontolò acidamente, raccogliendo gli ultimi piselli. Li mangiò e si servì un’altra porzione d’arrosto.
Si domandò oziosamente se le Aes Sedai non potessero lasciargli il rubino incastonato nel pugnale di Shadar Logoth. Aveva un ricordo molto confuso del pugnale, ma anche così era come ricordare una terribile ferita. Si sentì annodare le viscere e una fitta acuta gli trapassò le tempie. Eppure aveva chiara l’immagine del rubino, grosso come l’unghia del pollice, scuro come goccia di sangue, brillante come occhio cremisi. Si sicuro aveva il diritto di reclamarlo, lui più di loro; e valeva almeno dieci fattorie.
Probabilmente avrebbero detto che pure il rubino era contaminato, pensò. Ed era verosimile. Tuttavia immaginò di barattarlo con i migliori appezzamenti dei Coplin. Quasi tutti i Coplin — piantagrane dalla culla e spesso anche ladri e bugiardi — meritavano qualsiasi cosa accadesse loro e anche peggio. Ma lui in realtà non credeva che le Aes Sedai gli avrebbero restituito il rubino; e, se l’avesse riavuto, non aveva molta voglia di portarlo fino a Emond’s Field. Inoltre, non era entusiasta come un tempo, all’idea di possedere la più vasta fattoria dei Fiumi Gemelli. Era stata la sua maggiore ambizione, oltre a quella d’essere riconosciuto abile quanto suo padre nel commercio di cavalli, ma ora la considerava un desiderio ben misero, con tutto il mondo in attesa fuori della porta.
Per prima cosa, decise, avrebbe cercato Egwene e Nynaeve. Forse avevano ritrovato il buonsenso, forse avevano rinunciato alla stupida idea di diventare Aes Sedai. Non lo riteneva probabile, ma non poteva andarsene senza averle viste. Perché se ne sarebbe andato, era sicuro. Un saluto a loro, un giorno per visitare la città, forse una partita a dadi per imbottire un po’ il borsello... e poi sarebbe andato da qualche parte, dove non ci fossero Aes Sedai. Prima di tornare a casa — sarebbe tornato, prima o poi — intendeva vedere il mondo... e senza dover ballare alla musica di qualche Aes Sedai.
Frugò nel vassoio in cerca di bocconi e si rese conto con sorpresa d’avere lasciato solo macchie d’unto e qualche briciola di pane e di formaggio. Le due caraffe erano vuote. Stupito, si guardò lo stomaco: con tutto quello che aveva mangiato, avrebbe dovuto sentirsi pieno fino alle orecchie. Invece gli pareva d’avere fatto solo uno spuntino. Raccolse le ultime briciole di formaggio. Mentre le portava alla bocca, impietrì.
Aveva suonato il Corno di Valere! Sottovoce fischiettò un motivetto. Ricordò le parole e si bloccò.
«Sarà meglio che ci sia una maledetta corda per risalire» mormorò. Lasciò cadere sul vassoio le briciole di formaggio Per un momento si sentì di nuovo male. Cercò di riflettere, di penetrare la nebbia che gli ottenebrava la mente.
Verin aveva portato a Tar Valon il Corno, lo ricordava; ma non ricordava se l’Aes Sedai sapesse che era stato lui a suonarlo. Verin non ne aveva mai parlato, ne era sicuro. Be’, quasi. E se l’Aes Sedai sapeva tutto? A meno che Verin non avesse fatto qualcosa di cui lui era all’oscuro, adesso le Aes Sedai avevano il Corno. Non avevano più bisogno di lui. Ma chi poteva dire di che cosa le Aes Sedai pensavano d’avere bisogno?
«Se mi fanno domande» disse, torvo «non l’ho mai toccato. Se sanno... Se sanno... ci penserò quando sarà il momento. Maledizione, non possono volere tutto, da me. Non possono!»
Udì un leggero colpo alla porta. Si alzò, barcollando, pronto a scappare... se ci fosse stato un posto dove scappare e se fosse riuscito a fare più di tre passi. Ma non c’era. E lui non si reggeva in piedi.
La porta si apri.
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Una donna vestita in seta bianca e argento entrò, chiuse la porta e si appoggiò al battente, scrutò Mat, con gli occhi più neri che lui avesse mai visto. Era talmente bella da mozzare il fiato: capelli neri come la notte, trattenuti da una fascia d’argento finemente intessuta, atteggiamenti aggraziati da danzatrice. Mat ebbe l’impressione di conoscerla, ma scartò subito il pensiero: nessuno poteva dimenticare una donna così bella.
«Un po’ più in carne, saresti forse passabile» disse la donna. «Ma per il momento sarebbe meglio che ti coprissi.»
Mat continuò a fissarla ancora un istante e a un tratto si rese conto d’essere nudo. Rosso in viso, andò al letto e si mise sulle spalle la coperta come se fosse un mantello, poi, più che sedersi, si lasciò cadere sul bordo del materasso. «Chiedo scusa per... voglio dire... insomma, non m’aspettavo...» Trasse un gran respiro. «Chiedo scusa per essermi fatto trovare in questo stato.»
Si sentiva ancora bruciare le guance. Per un attimo desiderò che Rand o Perrin fossero lì a consigliarlo. Loro parevano cavarsela sempre, con le donne; lui invece, per quanto si sforzasse, riusciva ogni volta a fare la figura dello sciocco. Come era appena accaduto.
«Non ti avrei fatto visita così all’improvviso, Mat; ma mi trovavo qui nella... nella Torre Bianca...» sorrise, come se il nome la divertisse «per altri motivi e desideravo vedervi tutti.» Mat arrossì di nuovo e si strinse nella coperta; ma pareva che lei non avesse intenzione di prenderlo in giro. Con la grazia d’un cigno si accostò al tavolo. «Sei affamato» proseguì. «Era prevedibile, visto come operano. Cerca di mangiare tutto quello che ti danno. Sarai sorpreso nel vedere con quanta rapidità ti rimetterai in carne e ritroverai le forze.»
«Chiedo scusa» disse Mat, diffidente «ma ti conosco? Senza offesa, mi sembri... familiare.» Lei lo fissò e Mat si mosse a disagio, una donna come quella s’aspettava che chiunque la ricordasse.
«Forse mi hai già visto» disse lei infine. «Da qualche parte. Puoi chiamarmi Selene.» Inclinò leggermente la testa; pareva aspettare che lui riconoscesse il nome.
Mat aveva un vago ricordo: era convinto d’avere udito quel nome, ma non sapeva né quando né dove. «Sei Aes Sedai, Selene?» domandò.