Nynaeve, seduta in una delle due poltrone, teneva in grembo la testa di Elayne che, scossa dai singhiozzi, piangeva piano, come quando non si ha più la forza di versare lacrime, ma si sente ancora il bruciore delle emozioni. Anche Nynaeve aveva le guance umide. Il Gran Serpente luccicava sulla mano che lisciava i capelli di Elayne e faceva il paio con quello alla mano di quest’ultima, stretta sull’orlo della sottana di Nynaeve.
Elayne alzò il viso, rosso e gonfio per il lungo pianto; vide Egwene e tirò su col naso. «Non potrei essere così sciagurata, Egwene. Non potrei proprio!»
L’incidente col ter’angreal, il timore che qualcuna avesse letto i fogli di Verin, i sospetti verso tutte le donne presenti in quella sala... erano state emozioni terribili, ma l’avevano riparata alla bell’e meglio da ciò che si era verificato dentro gli archi. Incidente, timore e sospetti provenivano dall’esterno; il resto, dal suo intimo. Le parole di Elayne lacerarono lo strato protettivo e l’emozione racchiusa colpì Egwene con la forza d’un soffitto che crolli. Rand suo marito e Joiya sua figlia. Rand, impossibilitato a muoversi, che la supplicava di ucciderlo. Rand in catene, sul punto d’essere domato.
Prima di rendersene conto, si ritrovò in ginocchio accanto a Elayne e tutte le lacrime fino a quel momento trattenute sgorgarono come fiume in piena. «Non potevo aiutarlo, Nynaeve!» singhiozzò Egwene. «L’ho abbandonato lì!»
Nynaeve trasalì, come schiaffeggiata; ma subito circondò con le braccia Egwene e Elayne, le strinse al petto, le cullò. «Non dite niente» mormorò piano. «Col tempo, passa. Un poco. Un giorno le costringeremo a pagare il nostro prezzo. Non dite niente. Non dite niente.»
24
Indagini e scoperte
La luce del sole filtrò dagli scuri traforati, strisciò sul letto, svegliò Mat. Per un momento lui si limitò a stare disteso, perplesso. Prima di lasciarsi vincere dal sonno non aveva elaborato alcun piano per fuggire da Tar Valon, ma neppure vi aveva rinunciato. Ancora troppi ricordi erano annebbiati, ma non avrebbe ceduto.
Entrarono due indaffarate cameriere, portando acqua calda e un vassoio carico di cibi; gli sorrisero e gli dissero che aveva già un aspetto migliore e che presto sarebbe stato di nuovo in piedi, se avesse seguito le prescrizioni delle Aes Sedai. Mat rispose brevemente, cercando di non mostrarsi aspro. Pensassero pure che intendeva continuare la cura. Al profumo proveniente dal vassoio, si sentì brontolare lo stomaco.
Uscite le cameriere, gettò da parte la coperta e scese dal letto, fermandosi solo a ficcarsi in bocca mezza fetta di prosciutto, prima di versare l’acqua per lavarsi e radersi. Fissò l’immagine nello specchio posto sopra il lavabo e smise per un momento d’insaponarsi il viso: aveva davvero un aspetto migliore.
Le guance erano ancora incavate, ma non come il giorno prima. Le occhiaie scure erano scomparse, gli occhi erano meno infossati. Pareva che ogni boccone trangugiato la sera precedente gli avesse messo carne sulle ossa. Si sentiva perfino più in forze.
«Di questo passo» borbottò «me ne sarò andato prima che loro se ne rendano conto.» Ma era ancora sorpreso quando, dopo la rasatura, si sedette e divorò, fino all’ultimo pezzetto, prosciutto, rape e pere.
Di sicuro si aspettavano che, terminato il pasto, tornasse subito a letto; invece si vestì. Batté i piedi per calzare gli stivali, guardò gli abiti di ricambio e decise di lasciarli, per il momento. Prima doveva sapere cosa intendeva fare. Se doveva lasciarli... Infilò nella borsa i bussolotti dei dadi. Con quelli si sarebbe procurato tutti gli abiti che gli servivano.
Aprì la porta e scrutò fuori. Altre porte di legno chiaro, dorato, si aprivano sul corridoio, alternate ad arazzi variopinti; una passatoia azzurra correva sul pavimento a piastrelle bianche. Ma non c’era nessuno. Niente guardie. Mat si mise in spalla il mantello e uscì rapidamente. Ora doveva trovare la via per l’esterno.
Fu costretto a girare un poco, giù per scale e lungo corridoi e in corti a cielo aperto, prima di trovare una porta sull’esterno; e intanto vide delle persone: cameriere e novizie vestite di bianco, che procedevano in fretta per eseguire commissioni... e le novizie correvano anche più delle cameriere; cinque o sei servitori che trasportavano grossi bauli e altri carichi pesanti; alcune Ammesse con la veste ornata di bande dei sette colori. Persino un paio di Aes Sedai.
Nel passare, le Aes Sedai non parvero neppure accorgersi di lui, oppure gli diedero solo un’occhiata di sfuggita. Mat indossava abiti di campagna, ma ben fatti: non aveva l’aspetto di un vagabondo; inoltre, la presenza dei servitori dimostrava che in quella parte della Torre era consentito l’ingresso ai maschi. Mat sospettò che lo scambiassero per un servitore: per lui andava bene, purché nessuno gli dicesse di sollevare oggetti pesanti.
Rimase un po’ deluso che nessuna delle donne viste fosse Egwene o Nynaeve o anche Elayne. Quest’ultima era carina, malgrado l’aria altezzosa. E avrebbe potuto dirgli come trovare Egwene e la Sapiente. Non poteva andarsene senza salutarle. Si domandò se una di loro avrebbe fatto la spia, visto che stava per diventare Aes Sedai, ma si diede dello stupido: loro non l’avrebbero mai fatto! Comunque, avrebbe corso il rischio.
Una volta all’esterno, sotto il luminoso cielo del primo mattino, macchiato soltanto da qualche nuvola vagabonda, per un poco non pensò più alle donne. Aveva di fronte un’ampia corte lastricata, con al centro una comune fontana e sul lato opposto un casermone di pietra grigia. Quest’ultimo pareva un enorme macigno fra i pochi alberi che spuntavano da spiazzi bordati fra le pietre del lastrico. Davanti al lungo e basso edificio, guardie in maniche di camicia facevano manutenzione alle armi, alle corazze e ai finimenti. Le guardie erano proprio quel che lui cercava al momento.
Attraversò la corte e osservò i soldati, come se non avesse niente di meglio da fare. Mentre lavoravano, i soldati chiacchieravano e ridevano, come contadini al termine del raccolto. Di tanto in tanto uno di loro guardava curiosamente Mat, ma nessuno mise in discussione il suo diritto di trovarsi lì. E Mat di tanto in tanto faceva con noncuranza qualche domanda. Alla fine ottenne le risposte che cercava.
«La guardia al ponte?» disse un uomo robusto, nero di capelli, più anziano di lui di cinque anni al massimo, con una forte cadenza illiana. Per quanto giovane, aveva sulla guancia sinistra una sottile cicatrice biancastra e oliava la spada, con competenza e cognizione di causa. Guardò Mat a occhi socchiusi, prima di riprendere il lavoro. «Devo fare la guardia al ponte e smonterò stasera. Perché lo domandi?»
«Mi chiedevo soltanto quali condizioni ci fossero dall’altra parte del fiume. Buon tempo per viaggiare? Non dovrebbe esserci fango, a meno che non ci siano state più piogge di quanto non mi risulti.»
«Quale lato del fiume?» domandò placidamente il soldato. Non alzò gli occhi dallo straccio unto che strofinava sulla lama.
«Ah... orientale. Il lato orientale.»
«Fango, no. Manti Bianchi.» Si spostò di lato a sputare, ma non cambiò tono di voce. «Nel raggio di dieci miglia i Manti Bianchi cacciano il naso in ogni villaggio. Ancora non hanno infastidito nessuno, ma la loro presenza basta a innervosire la gente. Porca Fortuna, penso proprio che vogliano provocarci: hanno l’aria di chi ci attaccherebbe, se potesse. Brutta storia, per chi vuole mettersi in viaggio.»
«E a ponente?»
«Stessa cosa.» Il soldato guardò in viso Mat. «Ma tu non passerai i ponti, ragazzo, né a levante né a ponente. Sei Matrim Cauthon. Ieri sera una Sorella è venuta di persona al ponte dov’ero di guardia. Ci ha ripetuto la tua descrizione, finché non la sapevamo a memoria. Sei un ospite, ha detto, da non toccare. Ma non devi lasciare la città, a costo di legarti mani e piedi per impedirtelo.» Socchiuse gli occhi. «Non avrai rubato qualcosa?» domandò, dubbioso. «Non hai l’aria dei soliti ospiti.»