Dal primo colpo capì che la fortuna, o l’abilità, o qualsiasi cosa l’avesse fatto arrivare fino a quel punto, lo sosteneva ancora. Galad riuscì a deviare quel colpo, con uno schiocco secco, e il successivo, e altri due, ma irrigidì il viso per la tensione. L’elegante spadaccino, abile quasi quanto i Custodi, usava fino in fondo tutte le proprie capacità per tenere lontano il bastone. Non attaccava: poteva solo difendersi. Si muoveva in continuazione da una parte e dall’altra, cercava di non farsi sospingere indietro; e Mat lo incalzava, muovendo rapidamente il bastone. Galad arretrò d’un passo, arretrò ancora: la spada di legno era uno scudo ben piccolo, contro il bastone.
Mat era divorato dai morsi della fame, come se avesse inghiottito delle donnole. Aveva il sudore negli occhi e cominciava a sentirsi sfinito, come se la forza gli colasse via insieme col sudore. Non poteva crollare, non ancora: doveva vincere. Subito. Con un ruggito gettò in un ultimo assalto tutte le residue energie.
Il bastone guizzò dentro la guardia di Galad e in rapida successione colpì ginocchio, polso, costole; infine si piantò come lancia nello stomaco dell’avversario. Con un gemito Galad si piegò in due e si sforzò di non cadere. Nelle mani di Mat il bastone tremò, sul punto di vibrare il micidiale colpo conclusivo alla gola. Galad cadde a terra.
Mat si rese conto di che cosa era stato sul punto di fare e lasciò quasi cadere il bastone. Doveva vincere, non uccidere! Che cosa aveva pensato? D’istinto piantò a terra il bastone e subito fu costretto ad aggrapparvisi per tenersi in piedi. La fame lo scavava come coltello che togliesse dall’osso il midollo. A un tratto si rese conto che non solo Aes Sedai e Ammesse lo osservavano: Custodi e allievi avevano interrotto addestramento e lezioni, fissavano solo lui.
Hammar si accostò a Galad, che ancora gemeva e cercava di tirarsi in piedi. Il Custode alzò la voce. «Chi fu il più grande spadaccino di tutti i tempi?» gridò.
Dalla gola di decine d’allievi uscì la risposta: «Jearom Gaidin!»
«Giusto» disse Hammar, girandosi per assicurarsi che tutti udissero. «In vita sua, Jearom sostenne più di diecimila scontri, in battaglia e in duello. Fu sconfitto solo una volta. Da un contadino armato di bastone! Non dimenticatelo. E non dimenticate quel che avete appena visto.» Guardò Galad e abbassò la voce. «Se ancora non riesci ad alzarti, ragazzo, è finita.» Sollevò la mano: Aes Sedai e Ammesse si precipitarono intorno a Galad.
Mat scivolò ginocchioni. Nessuna Aes Sedai lo degnò d’uno sguardo; solo un’Ammessa gli diede un’occhiata... una ragazza grassoccia che forse Mat avrebbe invitato a un giro di danza, se non fosse stata destinata a diventare Aes Sedai. L’Ammessa corrugò la fronte, sbuffò, e si girò a guardare che cosa facevano le Aes Sedai intorno a Galad.
Gawyn era in piedi, notò Mat con sollievo. Si alzò anche lui, mentre Gawyn si avvicinava. Non doveva mostrasi debole, altrimenti non sarebbe mai andato via da Tar Valon, se le Aes Sedai avessero deciso di curarlo dall’alba all’alba. Gawyn aveva i capelli sporchi di sangue, ma non si vedeva alcun taglio.
Il giovane mise in mano a Mat due marchi d’argento. «La prossima volta ti darò retta» disse. Notò l’occhiata di Mat, si toccò la testa. «Hanno Guarito la ferita, ma era solo un graffio. Elayne m’ha fatto di peggio, più d’una volta. Sei bravo, col bastone.»
«Meno di mio padre» rispose Mat. «Da quando mi ricordo, ogni anno alla festa di Bel Tine ha vinto la gara di bastone, a parte un paio d’occasioni in cui vinse il padre di Rand.» Negli occhi di Gawyn tornò quel lampo d’interesse e Mat rimpianse d’avere menzionato Tam al’Thor. Aes Sedai e Ammesse erano ancora raggruppate intorno a Galad. «Devo... devo averlo ferito gravemente. Ma non ne avevo l’intenzione.»
Gawyn diede un’occhiata da quella parte (non c’era niente da vedere, a parte due cerchi di schiene femminili, il più esterno composto di vesti bianche delle Ammesse che scrutavano da sopra la spalla delle Aes Sedai accovacciate) e si mise a ridere. «Non l’hai ucciso. Ho udito i suoi gemiti, quindi ormai dovrebbe essersi rimesso in piedi; ma quelle non si lasceranno sfuggire l’occasione, ora che gli hanno messo le mani addosso. Luce santa, quattro sono dell’Ajah Verde!» Mat gli diede un’occhiata, perplesso, e Gawyn scosse la testa. «Non importa. Ma sta’ sicuro che la cosa peggiore di cui debba preoccuparsi Galad è un’altra: trovarsi legato come Custode a un’Aes Sedai Verde prima che la testa gli si schiarisca.» Rise. «No, non faranno una cosa del genere. Ma scommetterei quei miei due marchi che alcune di loro rimpiangono di non poterlo fare.»
«Non tuoi» disse Mat, mettendo nella tasca della giubba le due monete. «Miei.» Non aveva capito molto, della spiegazione, a parte che Galad stava bene. Del legame fra Custode e Aes Sedai conosceva quel poco che gli dicevano i frammentari ricordi su Lan e Moiraine: e li non c’era niente di ciò che Gawyn pareva insinuare. «Se la prenderanno, se vado a riscuotere l’altra metà della scommessa?»
«Oh, eccome» intervenne ironicamente Hammar, unendosi a loro. «Al momento non sei molto ben visto, da queste particolari Aes Sedai.» Sbuffò. «Si penserebbe che perfino le Verdi siano meglio di ragazzine appena staccate dalle sottane materne. Galad non è poi bello fino a questo punto.»
«No, infatti» convenne Mat.
Gawyn ridacchiò, finché Hammar non lo guardò di storto. «Prendi» disse il Custode, mettendo in mano a Mat altre due monete d’argento. «Più tardi mi farò rimborsare da Galad. Da dove provieni, ragazzo?»
«Dal Manetheren» rispose Mat. Restò di sasso, nell’udire quel nome uscirgli dalle labbra. «Voglio dire, dai Fiumi Gemelli» si corresse subito. «Ho ascoltato troppe storie dei tempi antichi.» I due si limitarono a guardarlo in silenzio. «Penso... penso che tornerò a cercare qualcosa da mettere sotto i denti.» Ancora non era suonata la campana di mezzo mattino, ma i due annuirono, come se avesse detto una cosa assennata.
Mat tenne il bastone (nessuno gli aveva detto di rimetterlo a posto) e si allontanò lentamente, finché gli alberi non lo nascosero alla vista. Allora vi si appoggiò, come se fosse l’unica cosa che lo tenesse in piedi. E forse era proprio così, si disse.
Se avesse aperto la giubba, pensò, avrebbe visto un buco al posto dello stomaco, un buco sempre più largo, man mano che divorava il resto del corpo. Ma quasi non pensava alla fame. Continuava a sentire voci nella testa. Parli la Lingua Antica, ragazzo? Dal Manetheren. Rabbrividì. Luce santa, continuava a inguaiarsi sempre più. Doveva andarsene di lì. Ma come? Tornò a passo malfermo verso la Torre, come un uomo vecchio, vecchissimo. Ma come?
25
Domande
Distesa di traverso sul letto di Nynaeve, mento fra le mani, Egwene guardava l’amica andare nervosamente avanti e indietro. Elayne se ne stava seduta davanti al camino ancora pieno della cenere della notte, ma esaminava un’altra volta l’elenco di nomi fornito da Verin e rileggeva con pazienza ogni parola. Le pagine con l’elenco dei ter’angreal, erano sul tavolo. Dopo la prima lettura, Egwene e le amiche, sconvolte, avevano accantonato questo argomento, anche se avevano parlato di tutto. E discusso, anche.
Egwene soffocò uno sbadiglio. Era solo metà mattino, ma nessuna di loro aveva riposato molto. Si erano svegliate presto. Per andare nelle cucine e preparare la colazione. Per altri motivi a cui Egwene si rifiutava di pensare. Quel po’ di sonno che era riuscita a concedersi era stato pieno di sogni spiacevoli. Forse Anaiya poteva aiutarla a capire i sogni, almeno quelli che bisognava capire, però... e se fosse stata dell’Ajah Nera? La notte scorsa, dopo avere fissato ogni donna presente nella sala ed essersi domandata chi appartenesse all’Ajah Nera, trovava difficile fidarsi di qualcuno, a parte le sue due amiche. Ma avrebbe voluto conoscere un sistema per interpretare quei sogni.