La biblioteca era un po’ spostata rispetto all’alto e massiccio corpo centrale della Torre Bianca: le pietre chiare erano fortemente striate d’azzurro e parevano onde che si schiantassero, mutate in pietra nel momento cruciale. Nella luce del mattino quelle onde si stagliavano con la vastità d’un palazzo e di certo contenevano parecchie stanze, ma tutti quei locali, sotto i bizzarri corridoi dei piani superiori, dove Verin alloggiava, contenevano scaffali zeppi di libri, di manoscritti, di fascicoli, di pergamene, di mappe e di carte nautiche, provenienti da ogni nazione importante e raccolti nel corso di tremila anni. Neppure le grandi biblioteche di Tear e di Cairhien avevano un numero così grande di opere.
Le bibliotecarie, tutte Sorelle dell’Ajah Marrone, custodivano quegli scaffali e sorvegliavano con altrettanta attenzione le porte, per assicurarsi che nessun frammento lasciasse quei locali senza che loro sapessero quale fosse e chi l’avesse preso. Ma Nynaeve non guidò Egwene e Elayne a uno degli ingressi sorvegliati.
Intorno alla base della biblioteca c’erano altre porte, grandi e piccole, che si aprivano di piatto nel terreno all’ombra di alti alberi di noce. A volte gli operai dovevano entrare nei ripostigli degli scantinati e le bibliotecarie non approvavano che uomini sudati andassero avanti e indietro nel loro territorio. Nynaeve aprì una di queste porte, non più grande dell’ingresso d’una casa colonica, e indicò alle altre di seguirla per una ripida rampa di scale che sprofondava nel buio. Quando richiuse la porta, le tenebre divennero complete.
Egwene si aprì a Saidar — le riuscì così facile che quasi non se ne accorse — e incanalò il rivolo di Potere che scorreva in lei. Per un istante la semplice sensazione di quell’ondata minacciò di soffocare ogni altra. Comparve una piccola palla di fuoco biancazzurro, sospesa in aria sopra la mano di Egwene. Quest’ultima inspirò a fondo e rammentò a se stessa per quale motivo si muoveva così rigidamente. Era un legame col resto del mondo. Sentì di nuovo lo sfregamento della biancheria contro la pelle, la presenza delle calze di lana, della veste. Con una leggera fitta di rimpianto bandì il desiderio di attingere altro Potere, di lasciarsi assorbire da Saidar.
Anche Elayne formò una piccola palla di luce, che insieme all’altra illuminava meglio d’un paio di lanterne. «Procura una sensazione... meravigliosa, vero?» mormorò.
«Sii prudente» disse Egwene.
«Certo» sospirò Elayne. «Ma la sensazione... Sarò prudente.»
«Da questa parte» disse bruscamente Nynaeve e passò avanti per guidarle nella discesa. Non si allontanò troppo: non era in collera e quindi doveva sfruttare la luce delle altre due.
Imboccarono un polveroso corridoio trasversale, fiancheggiato di porte di legno incassate nelle pareti di pietra grigia; percorsero un centinaio di passi e giunsero al passaggio principale, molto più largo, che correva lungo la biblioteca. Nella polvere c’erano varie serie di orme sovrapposte, in gran parte dovute a stivali da uomo e rese confuse dal tempo. Il soffitto era più alto e alcune porte erano tanto larghe da bastare per un fienile. In fondo c’era la scala principale, larga la metà del corridoio, utilizzata per trasportare grossi oggetti. Accanto a questa scala, un’altra portava al piano inferiore. Nynaeve la imboccò senza esitare.
Egwene la seguì a ruota. La luce azzurrastra rendeva slavato il viso di Elayne, ma Egwene pensò che l’amica fosse più pallida del normale. Si disse che là sotto si sarebbero potute consumare i polmoni a furia di gridare e nessuno avrebbe udito niente.
Sentì formarsi dentro di sé un fulmine, o il potenziale per un fulmine, e quasi incespicò. Mai, prima d’allora, aveva incanalato due flussi di Potere nello stesso tempo, ma non le pareva per niente difficile.
Il corridoio principale del secondo scantinato era molto simile a quello del piano superiore, largo e pieno di polvere, ma più basso di soffitto. Nynaeve andò in fretta alla terza porta a destra e si fermò.
La porta non era grande, ma le scabre assi di legno davano l’impressione d’essere assai spesse. Un lucchetto rotondo di ferro pendeva da una grossa catena tesa fra due robuste staffe, una fissata al battente, l’altra cementata alla parete. Lucchetto e catena parevano messi di recente: quasi non avevano tracce di polvere.
«Un lucchetto!» esclamò Nynaeve. Diede uno strattone, ma né lucchetto né catena cedettero. «Avete mai visto lucchetti, da altre parti?» Tirò di nuovo e lo lanciò contro la porta, con tanta forza da farlo rimbalzare. Il colpo echeggiò nel corridoio. «Non ho mai visto altre porte chiuse a catenaccio!» riprese Nynaeve. Batté il pugno contro il legno scabro. «Nemmeno una!»
«Calma» disse Elayne. «Non c’è bisogno di dare in escandescenze. Potrei aprire io stessa il lucchetto, se potessi vedere come funziona il meccanismo interno. In qualche modo lo apriremo.»
«Non voglio calmarmi» sbottò Nynaeve. «Voglio diventare furiosa! Voglio...»
Egwene lasciò perdere il resto della tirata e toccò la catena. Da quando aveva lasciato Tar Valon, aveva imparato molte cose, non solo a scagliare fulmini. Una di esse era l’affinità col metallo. Proveniva da Terra, uno dei Cinque Poteri che si presentava con forza in un piccolo numero di donne (l’altro era Fuoco); ma lei possedeva questo Potere e sentiva la catena, sentiva dentro la catena, sentiva i piccolissimi frammenti di gelido metallo, lo schema che formavano. Dentro di lei il Potere vibrò a tempo con le vibrazioni di quegli schemi.
«Togliti di mezzo, Egwene.»
Nynaeve, avvolta nell’alone di Saidar, reggeva un piede di porco di colore così vicino al biancazzurro della luce da risultare quasi invisibile. Guardò, accigliata, la catena e brontolò qualcosa a proposito di leve; all’improvviso il piede di porco divenne lungo il doppio.
«Togliti, Egwene.»
Egwene si scostò.
Nynaeve infilò nella catena l’estremità della sbarra e premette con tutte le sue forze. La catena si spezzò come filo; Nynaeve rimase a bocca aperta e barcollò fino a metà corridoio; il piede di porco cadde a terra, con rumore di ferraglia. Nynaeve si raddrizzò e guardò, stupita, il piede di porco e la catena. Il primo svanì.
«Penso d’averla indebolita io» disse Egwene. Le sarebbe piaciuto sapere come aveva fatto.
«Potevi avvisarmi» brontolò Nynaeve. Sfilò dalle staffe la catena e spalancò la porta. «Be’? Volete stare lì tutto il giorno?»
La stanza era polverosa, ampia forse trenta piedi quadrati, ma conteneva soltanto un mucchio di grosse sacche di pesante tela marrone, ciascuna ben piena, etichettata e sigillata con la Fiamma di Tar Valon. Non occorreva contarle, per sapere che erano tredici.
Egwene spostò contro la parete la palla di fuoco e la fissò lì; non sapeva bene come ci fosse riuscita, ma quando tolse la mano, la palla non si mosse. Continuava a fare nuove cose senza sapere come, pensò, innervosita.
Elayne la guardò, con la fronte corrugata, come se riflettesse; poi appese anche lei la palla alla parete. Osservandola, Egwene credette di capire che cosa l’altra aveva fatto. Elayne aveva imparato da lei... e lei da Elayne. Ebbe un brivido.
Nynaeve iniziò subito a spostare le sacche e a leggere le targhette. «Rianna» disse. «Joiya Byir. Sono quelle che cerchiamo.» Esaminò il sigillo di una sacca, poi ruppe la ceralacca e sciolse la cordicella. «Almeno sappiamo che nessuno è stato qui prima di noi.»
Egwene scelse una sacca e spezzò il sigillo, senza guardare il nome sulla targhetta. Non ci teneva a sapere di chi erano gli effetti personali che s’apprestava a esaminare. Rovesciata la sacca, quelli si dimostrarono soprattutto abiti vecchi e scarpe, più qualche brandello di foglio accartocciato, del tipo che finirebbe sotto l’armadio di una donna non troppo assidua nel far pulire la propria stanza. «Qui non vedo niente di utile» disse. «Un mantello che non serve neppure per fare stracci. Mezza mappa di chissà quale città. Ah, Tear, c’è scritto nell’angolo. Tre paia di calze da rammendare.» Infilò il dito in una pantofola di velluto, spaiata, e lo agitò in direzione delle altre due. «Questa qui non ha lasciato indizi.»