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Nynaeve, ferma davanti al camino, teneva in mano la borsa di Egwene e si tirava la treccia. Elayne sedeva al tavolo e conversava con nervosismo.

«L’Ajah Verde» disse, per quella che a Egwene parve la ventesima volta da mezzodì. «Potrei scegliere l’Ajah Verde, Egwene. Così potrei avere tre o quattro Custodi e forse maritarne uno. Chi, meglio di un Custode, sarebbe adatto a essere Principe Consorte dell’Andor? A meno che...» Lasciò morire la frase e divenne rossa.

Egwene sentì una fitta di gelosia (cosa di cui pensava d’essersi liberata da molto tempo) mista a comprensione. Come poteva essere gelosa di Rand, se non riusciva a guardare Galad senza provare un brivido e sentirsi sciogliere? Rand era stato suo, ma non lo era più. L’avrebbe lasciato volentieri a Elayne, ma lui non era per una di loro. Sarebbe stato meglio che l’Erede maritasse un uomo normale, purché dell’Andor, anziché il Drago Rinato. Lasciò cadere per terra le calze, dicendosi che quella notte aveva ben altro a cui pensare, non al disordine. «Sono pronta, Nynaeve» annunciò.

Nynaeve le tese la borsa e una lunga e sottile striscia di cuoio. «Forse funzionerà per più persone nello stesso tempo» disse. «Potrei... venire con te.»

Tenendo sul palmo l’anello di pietra, Egwene vi passò la correggia e se la legò al collo. Le striature e le pagliuzze azzurre, marrone e rosse parvero più vivide contro il bianco della camicia da notte. «E lasciare da sola Elayne a guardarci? Quando l’Ajah Nera forse sa tutto di noi?»

«Posso cavarmela» disse Elayne, decisa. «Oppure fammi venire con te e lasciamo di guardia Nynaeve. È la più forte di noi, quando s’infuria; se occorre che una stia di guardia, lei sarebbe l’ideale.»

Egwene scosse la testa. «E se con due non funziona? Lo sapremmo solo dopo esserci svegliate e avremmo sprecato la notte. Non possiamo sprecare tempo, se vogliamo raggiungerle. Siamo già troppo in ritardo.» Erano ragioni valide e lei ci credeva, ma c’era un’altra ragione, più personale. «E poi, mi sentirò meglio, sapendo che tutt’e due mi sorvegliate, in caso che...»

Non voleva dirlo. In caso che venisse qualcuno mentre lei dormiva. I Grigi. L’Ajah Nera. Una qualsiasi delle cose che avevano mutato la Torre Bianca da luogo sicuro a foresta tenebrosa piena di burroni e di trappole. Il viso delle altre due rivelò che avevano capito.

Mentre Egwene si distendeva e si aggiustava sotto la testa il guanciale imbottito di piume, Elayne spostò ai lati del letto le due poltrone. Nynaeve spense a una a una le candele; poi, nel buio, si accomodò in una poltrona. Elayne si sedette nell’altra.

Egwene chiuse gli occhi e cercò di pensare a cose che favorissero il sonno, ma era troppo consapevole dell’anello che le pendeva tra i seni, più che dei dolori dovuti alla visita nello studio di Sheriam. Ora le pareva che l’anello pesasse quanto un mattone e allontanasse pensieri di casa e di laghetti sereni. Tel’aran’rhiod. Il Mondo Invisibile. Il Mondo dei Sogni. In attesa sul limitare del sonno.

Nynaeve cominciò a canticchiare a bocca chiusa. Egwene riconobbe un motivetto senza titolo e senza parole, che la madre le cantava quando lei era bambina, quando si metteva a letto, nella sua camera, con un morbido guanciale e coperte di lana e i profumi d’olio di rosa e di pane sfornato e... Chissà se Rand stava bene... E Perrin... Si addormentò.

Si trovava in un terreno collinoso punteggiato di prati fioriti e di rigogliosi boschetti negli avvallamenti. Farfalle svolazzavano sui fiori, lampi d’ali gialle, azzurre e verdi; nelle vicinanze, due allodole cinguettavano. Qualche nuvola bianca e soffice si muoveva nel cielo azzurro chiaro e la brezza manteneva quel delicato equilibrio fra caldo e freddo che si manifesta solo in alcune particolari giornate di primavera. Una giornata troppo perfetta per essere reale.

Egwene si guardò il vestito e rise di piacere: proprio la sua sfumatura preferita di seta celeste, con bande bianche nella sottana (si mutarono in verdi, appena lei si accigliò un istante) e file di perline lungo le maniche e sul petto. Protese il piede per guardare la punta della pantofola di velluto. L’unica nota stonata era l’anello ritorto di pietra multicolore che le pendeva sul petto, appeso a una correggia di pelle.

Strinse in mano l’anello e ansimò: era leggero come una piuma. Se l’avesse tirato in aria, ne era sicura, sarebbe volato via come lanugine di cardo. Non sapeva spiegarsi il perché, ma non ne aveva più paura. Lo infilò nel collo della veste, perché non le penzolasse davanti.

«Così questo è il Tel’aran’rhiod di cui parlava Verin» disse. «Il Mondo dei Sogni descritto da Corianin Nedeal. Non mi pare pericoloso.» Ma Verin aveva detto che era pericoloso. Ajah Nera o no, lei non vedeva come un’Aes Sedai potesse dire una vera e propria bugia. Forse Verin si era sbagliata, si disse. Ma non lo riteneva probabile.

Solo per vedere se ne aveva la possibilità, si aprì all’Unico Potere. Saidar la riempì. Anche in quel mondo, era presente. Egwene incanalò il flusso, con delicatezza, lo diresse nel venticello, formò con le farfalle mulinelli di colore, cerchi intrecciati a cerchi.

Smise di colpo. Le farfalle ripresero a svolazzare, incuranti della breve avventura. Myrddraal e Progenie dell’Ombra percepivano chi incanalava. Egwene si guardò intorno e non riuscì a immaginare in quel luogo creature del genere; ma il fatto che lei non riuscisse a immaginarle non significava che non ci fossero. E l’Ajah Nera aveva tutti i ter’angreal studiati da Corianin Nedeal. Un nauseante ricordo del perché lei si trovava lì.

«Almeno so di poter incanalare» borbottò. «Non scopro niente, se me ne sto qui. Forse, se giro a dare un’occhiata...» Mosse un passo...

...e si ritrovò nell’umido, buio corridoio d’una locanda. Era figlia di locandiere, quindi era sicura che si trattasse d’una locanda. Non udiva rumori e vide che tutte le porte lungo il corridoio erano ben chiuse. Proprio mentre si domandava chi ci fosse dall’altra parte, si accorse che la porta di semplice legno davanti a lei si apriva senza rumore.

La stanza era spoglia; il vento gelido gemeva entrando dalle finestre e agitava vecchia cenere nel camino. Un grosso cane se ne stava accucciato per terra, con la coda irsuta davanti al naso, fra la porta e un massiccio pilastro di pietra nera rozzamente tagliata, posto al centro della stanza. Un robusto giovanotto dai capelli ispidi sedeva con la schiena contro il pilastro: indossava solo la biancheria e teneva la testa ciondoloni come se dormisse. Una robusta catena nera circondava il pilastro e il petto del giovanotto, che ne reggeva a pugni serrati le estremità e gonfiava i muscoli per tenere tesa la catena, per imprigionare se stesso.

«Perrin?» disse Egwene, meravigliata. Entrò nella stanza. «Perrin, cosa t’è preso? Perrin!» Il cane si alzò.

Non era un cane, ma un lupo, nero e grigio, con labbra arricciate a snudare zanne bianche e luccicanti, con occhi gialli che la guardavano come avrebbero guardato un topo. Un topo da mangiare.

Suo malgrado, Egwene arretrò in fretta nel corridoio. «Perrin!» gridò. «Svegliati! C’è un lupo!» Verin le aveva detto che quanto accadeva in quel mondo era reale e le aveva mostrato la cicatrice per confermarlo. Le zanne del lupo le parevano grosse come coltelli. «Perrin, svegliati! Fagli capire che sono tua amica!» Abbracciò Saidar. Il lupo si avvicinò, deciso.

Perrin alzò la testa, aprì con aria assonnata gli occhi. Egwene si trovò a guardare ora due paia d’occhi gialli. Il lupo si raccolse per balzare.

«Hopper, no!» gridò Perrin. «Egwene!»

La porta le si chiuse in faccia: Egwene fu avvolta dalle tenebre.