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Non vedeva niente, ma sentiva goccioline di sudore sulla fronte. Non per il caldo. Dove si trovava? Quel posto non le piaceva. Voleva svegliarsi!

Udì un suono stridulo e sobbalzò, prima di riconoscere il canto di un grillo. Nel buio una rana emise un basso gracidio, cui rispose un coro. A poco a poco Egwene riuscì a distinguere alberi tutt’intorno. Le nuvole nascondevano le stelle e la luna era una falce sottile.

Sulla destra, fra gli alberi, c’era un altro bagliore, tremulo. Un fuoco da campo.

Egwene rifletté un attimo, prima di muoversi. Il desiderio di svegliarsi non era bastato a farla uscire dal Tel’aran’rhiod. Lei non aveva ancora scoperto niente di utile. Ma non era stata ferita in alcun modo. Per il momento, pensò, con un brivido. Però non sapeva quale persona, o creatura, fosse accanto a quel fuoco: poteva trattarsi di un Myrddraal. E poi, non aveva l’abbigliamento adatto per andare in giro nei boschi. Fu quest’ultima considerazione a deciderla: si piccava di capire quando si comportava da stupida.

Inspirò a fondo, raccolse le sottane di seta e piano piano si avvicinò al fuoco. Forse nei boschi non era abile come Nynaeve, ma ne sapeva abbastanza per non calpestare rami secchi. Da dietro il tronco d’una quercia annosa scrutò con cautela il fuoco da campo.

C’era solo un giovanotto alto, seduto a fissare le fiamme. Rand. Le fiamme non provenivano da legna, ma da una fonte invisibile: danzavano sopra un tratto di terreno nudo e non lasciavano tracce di bruciato.

Prima che lei si muovesse, Rand alzò la testa. Egwene vide con sorpresa che fumava la pipa, dal cui fornello sì levava un sottile nastro di fumo. Rand pareva stanco, molto stanco.

«Chi c’è lì?» domandò a voce alta. «Hai fatto frusciare tante foglie da svegliare un morto, quindi puoi anche mostrarti.»

Egwene serrò le labbra e uscì allo scoperto. «Sono io, Rand» disse. «Non avere paura. È un sogno. Mi trovo in un tuo sogno.»

Rand scattò in piedi, con tale rapidità che Egwene si bloccò. Le parve più grosso di quanto non ricordasse. E un poco pericoloso. Forse più di un poco. I suoi occhi, grigioazzurri, parevano ardere come fuoco gelido.

«Credi che non sappia che è un sogno?» disse Rand, beffardo. «Ma non per questo è meno reale.» Fissò rabbiosamente le tenebre, come se cercasse qualcuno. «Per quanto tempo ancora continuerai a tentare?» gridò nella notte. «Quante facce diverse manderai? Mia madre, mio padre, ora lei! Le belle fanciulle non mi tenteranno con un bacio, neppure quelle che conosco! Ti rinnego, Padre delle Menzogne! Ti rinnego!»

«Rand» disse Egwene, incerta «sono Egwene. Egwene.»

In pugno a Rand comparve all’improvviso una spada uscita dal nulla. La lama consisteva in una singola fiamma, leggermente ricurva, con il simbolo dell’airone.

«Mia madre mi diede dolcini al miele che puzzavano di veleno» disse Rand, con voce tesa. «Mio padre aveva un pugnale da piantarmi nel petto. Lei... lei offrì baci e altro.» Aveva il viso lucido di sudore e uno sguardo fisso che pareva sufficiente a incendiare. «Tu cosa porti?»

«Ora ascolterai me, Rand al’Thor, dovessi buttarti a terra e sedermi su di te» sbottò Egwene. Si aprì a Saidar e ne incanalò il flusso per fare in modo che l’aria trattenesse Rand in una rete.

La spada roteò, ruggì come fornace spalancata.

Egwene barcollò, come se avesse perso l’equilibrio tirando una corda troppo tesa che si fosse rotta di colpo.

Rand si mise a ridere. «Imparo, come vedi» disse. «Quando funziona...» Con una smorfia, avanzò verso di lei. «Potrei sopportare ogni faccia, tranne quella. Non la sua, la Luce t’incenerisca!» La spada saettò.

Egwene fuggì.

Non seppe che cosa avesse fatto, né come, ma si ritrovò fra le colline sotto il cielo assolato, fra cinguettii d’allodole e svolazzare di farfalle. Riprese fiato, scossa dai brividi.

Aveva scoperto qualcosa, pensò. Che cosa? Che il Tenebroso dava sempre la caccia a Rand? Questo già lo sapeva. Che forse il Tenebroso voleva ucciderlo? Questo era diverso. A meno che Rand non fosse già impazzito e non sapesse che cosa diceva. Luce santa, perché non poteva aiutarlo?

Trasse un lungo respiro per calmarsi. «L’unico modo per aiutarlo è domarlo» borbottò. «Oppure ucciderlo.» Si sentì rivoltare lo stomaco. «Non lo farò mai. Mai!»

Un cardinale si era appollaiato in un vicino cespuglio di rovo camemoro e aveva alzato la cresta, inclinando il capo per osservarla con diffidenza. Egwene si rivolse a lui. «Be’, non aiuto nessuno, se me ne sto qui a parlare fra me, giusto? O a parlare con te.»

Il cardinale si alzò in volo, mentre lei si avvicinava al cespuglio. Era ancora un lampo cremisi, quando lei mosse il passo seguente; scomparve in un folto d’alberi, quando lei mosse il terzo passo.

Egwene si fermò e trasse dalla veste l’anello di pietra. Perché non cambiava? Fino a quel momento ogni cosa era cambiata con tale rapidità da toglierle il fiato. Perché ora no? A meno che non ci fosse proprio lì qualche risposta. Si guardò intorno, incerta. I fiori di campo la stuzzicavano e il canto delle allodole la derideva. Quel luogo pareva proprio inventato da lei.

Strinse con decisione le dita sul ter’angreal. «Portami dove devo essere» disse. Chiuse gli occhi e si concentrò sull’anello. «Avanti. Portami dove devo essere.» Abbracciò di nuovo Saidar, alimentò l’anello mediante un rivolo dell’Unico Potere. Sapeva che l’anello, per funzionare, non aveva bisogno del flusso di Potere: voleva soltanto mettergliene a disposizione una quantità maggiore. «Portami dove possa trovare una risposta. Devo sapere cosa vuole l’Ajah Nera. Portami alla risposta.»

«Bene, finalmente ti ho trovata, ragazza. Qui ci sono tutte le risposte che vuoi.»

Egwene aprì di scatto gli occhi. Si trovava in un’ampia sala dal soffitto a cupola sorretto da una foresta di colonne di granito. A mezz’aria c’era una spada di cristallo che luccicava e scintillava, in lenta rotazione. Egwene non ne era sicura, ma riteneva che fosse la stessa spada che in quel suo sogno Rand aveva cercato di prendere. L’altro suo sogno. Questo pareva fin troppo reale: doveva continuare a ripetersi che anch’esso era soltanto sogno.

Una donna anziana uscì dall’ombra di una colonna: si teneva china e si appoggiava a un bastone. Il termine “brutto” sarebbe stato ben misera descrizione: la vecchia aveva mento ossuto e appuntito, un naso anche più ossuto e sottile, il viso coperto di nei pelosi.

«Chi sei?» domandò Egwene. Le uniche persone viste fino a quel momento nel Tel’aran’rhiod erano gente che già conosceva e non credeva che avrebbe potuto dimenticare una faccia come quella.

«Sono solo la povera vecchia Silvie, milady» gracchiò la sconosciuta. Nello stesso tempo cercò di piegarsi in quella che forse era una riverenza, forse un atteggiamento di paura. «Tu conosci la povera vecchia Silvie, milady. Per tutti questi anni ha servito fedelmente la tua famiglia. La mia faccia ti spaventa ancora? Non avere paura, milady: mi è utile, se occorre, quanto una più bella.»

«Oh certo» disse Egwene. «È una faccia forte. Una faccia buona.» Si augurò che la vecchia le credesse. Chiunque fosse, questa Silvie pareva convinta di conoscere Egwene. Forse aveva anche delle risposte. «Silvie, hai accennato al fatto che qui si trovano le risposte» disse.

«Oh, milady, sei venuta nel posto giusto. Il Cuore della Pietra è pieno di risposte. E di segreti. I Sommi Signori non sarebbero contenti di vederci qui, milady. Oh, no. Solo i Sommi Signori entrano in questa sala. E i servi, naturalmente.» Emise una risatina timida e gracchiante. «I Sommi Signori non usano scope e stracci. Ma chi vede un servo?»

«Che genere di segreti?»

Ma Silvie zoppicava verso la spada di cristallo. «Trame» disse, quasi parlasse tra sé. «Tutti fingono di servire il Gran Signore e intanto tramano per riprendersi ciò che hanno perduto. Ciascuno crede d’essere l’unico, o l’unica, a tramare. Ishamael è stupido!»