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Se avesse mantenuto quella linea di marcia, la donna sarebbe transitata a una buona trentina di passi dal folto d’alberi. Con gli occhi fissi su dove la giumenta pezzata posava gli zoccoli, non lasciava capire se avesse visto la gente in attesa fra gli alberi.

Perrin diede un colpo di tallone al cavallo; il baio si lanciò avanti, sollevando schizzi di neve. Più indietro, Huno ordinò a bassa voce: «Andiamo!»

Stepper aveva già coperto metà della distanza, prima che la donna si accorgesse degli intrusi; allora fermò di colpo la giumenta e li guardò formare un semicerchio incentrato su di lei. Un ricamo d’un azzurro da fare male agli occhi, secondo il disegno detto “labirinto tairenese", rendeva ancora più vistoso il mantello rosso. La donna non era giovane, ma aveva sul viso poche rughe, oltre a quella di disapprovazione per le armi. Però non si mostrò allarmata per l’incontro con uomini armati nel cuore delle montagne desolate. Continuò a tenere le mani sul pomo della sella, assai usata ma ben tenuta. E non emanava l’odore della paura.

"Basta con questa storia!" si rimproverò Perrin. Cercò di rendere dolce il tono, per non spaventare la donna. «Mi chiamo Perrin» disse. «Se ti occorre aiuto, farò il possibile. Altrimenti, la Luce ti accompagni. Però, se i Tuatha’an non hanno cambiato sistema di vita, sei molto lontano dai tuoi carrozzoni.»

Prima di rispondere, la donna li esaminò per un momento. Aveva negli occhi una luce garbata, non sorprendente per una Girovaga. «Cerco un’... una donna» disse.

L’esitazione, per quanto breve, era stata chiara: non cercava una donna qualsiasi, ma un’Aes Sedai.

«Ha un nome?» domandò Perrin. Ripeteva una prassi già seguita troppe volte negli ultimi mesi, per avere bisogno della sua risposta... ma il ferro si rovina, se non lo si cura.

«Si chiama.., A volte si fa chiamare Moiraine. Io sono Leya.»

Perrin annuì. «Ti condurremo da lei, Leya. Abbiamo dei bei fuochi e, con un po’ di fortuna, del cibo caldo.» Ma non si mosse subito. «Come ci hai trovati?» domandò. Aveva già fatto la stessa domanda, ogni volta che Moiraine l’aveva mandato ad aspettare in un punto particolare l’arrivo d’una donna, da lei previsto. La risposta sarebbe stata identica alle precedenti, ma Perrin doveva fare la domanda.

Leya si strinse nelle spalle e rispose con una certa esitazione. «Sapevo... sapevo che, se fossi venuta da questa parte, qualcuno mi avrebbe trovato e condotto da lei. Lo sapevo... semplicemente. Ho notizie per lei.»

Perrin non domandò quali fossero. Le donne davano solo a Moiraine le informazioni che portavano.

E l’Aes Sedai avrebbe detto agli altri ciò che voleva, pensò Perrin. Le Aes Sedai non mentivano mai, ma si diceva che la verità rivelata da una di loro non sempre fosse la verità che ci si aspettava. Comunque, ormai era troppo tardi per dubbi e scrupoli.

«Da questa parte, Leya» disse Perrin. Indicò il pendio montano. Gli shienaresi, con Huno in testa, si accodarono a Perrin e a Leya che iniziavano la risalita. Gli uomini delle Marche di Confine scrutavano il cielo e il territorio; gli ultimi due prestavano particolare attenzione a eventuali segni d’inseguimento.

Per un poco cavalcarono in silenzio, a parte il rumore di zoccoli, a volte lo scricchiolio di neve vecchia, a volte l’acciottolio di qualche sasso sui tratti di terreno spoglio. Leya continuava a dare occhiate a Perrin, al lungo arco, all’ascia, al viso; ma non apriva bocca. Sotto questo esame, Perrin si sentiva a disagio ed evitava d’incrociare lo sguardo della donna. Cercava sempre, per quanto possibile, di non dare agli estranei la possibilità di notare il colore dei suoi occhi.

A un certo punto disse: «Sono rimasto sorpreso nel vedere una Girovaga, considerate le idee del tuo popolo.»

«Si può contrastare il male senza commettere violenza» rispose Leya, con la semplicità di chi dichiara l’ovvio.

Perrin replicò con un brontolio agro, ma subito si scusò. «Fosse davvero come dici!»

«La violenza danneggia tanto il colpevole quanto la vittima» commentò serenamente Leya. «Per questo fuggiamo da coloro che ci fanno male: per salvarli dal danneggiare se stessi, oltre che per la nostra sicurezza. Se reagissimo con la violenza, diventeremmo come loro. Noi combattiamo l’Ombra, ma con la forza della nostra fede.»

Perrin non riuscì a trattenersi. «Ti auguro di non affrontare mai i Trolloc solo con la forza della fede» sbuffò. «La forza delle loro spade ti farà a pezzi.»

«Meglio morire, che...» iniziò lei. Ma per l’ira Perrin la interruppe: un’ira che lei non avrebbe mai capito... ira perché lei sarebbe davvero morta, piuttosto che ferire qualcuno, non importa quanto malvagio.

«Se scappi» disse «ti daranno la caccia e ti uccideranno e si ciberanno del tuo cadavere. E forse non aspetteranno che tu sia cadavere! Comunque, tu sarai morta e il male avrà trionfato. Inoltre, esistono uomini altrettanto crudeli. Amici delle Tenebre... e altri: più di quanti non avrei immaginato, fino a un anno fa. Aspetta che i Manti Bianchi decidano che voi Girovaghi non camminate nella Luce e vedrai quanti saranno tenuti in vita dalla forza della vostra fede!»

Leya gli scoccò un’occhiata penetrante. «Eppure tu non sei felice, malgrado le armi.»

Come faceva a saperlo? Perrin scosse la testa, irritato. «Il Creatore ha fatto il mondo» brontolò. «Non l’ho fatto io. Devo vivere meglio che posso nel mondo così com’è.»

«Quanta amarezza in una persona così giovane!» commentò piano lei. «Perché tanta tristezza?»

«Dovrei tenere gli occhi aperti, non chiacchierare» replicò Perrin, brusco. «Non mi ringrazieresti, se ti facessi fare una brutta fine.»

Spinse avanti Stepper quanto bastava a evitare altre conversazioni, ma continuò a sentire il suo sguardo. E sentì di nuovo il prurito alla nuca; ma, concentrato nell’ignorare lo sguardo di Leya, mise da parte anche questa sensazione.

Risalirono e scesero il pendio, attraversarono una valle alberata sul cui fondo scorreva un gelido torrente dove i cavalli affondavano fino al ginocchio. In lontananza, il fianco d’una montagna era stato scolpito a forma di due torreggianti figure. Forse un uomo e una donna, pensava Perrin, anche se da lungo tempo vento e pioggia avevano reso incerti i contorni. Perfino Moiraine sosteneva di non sapere chi rappresentavano, né quando erano state scolpite nel granito.

Spinarelli e piccole trote guizzavano lontano dagli zoccoli dei cavalli, lampi argentei nell’acqua chiara. Un cervo alzò la testa dai ciuffi d’erba, esitò nel vedere il gruppo che guadava il torrente, poi si rifugiò a balzi fra gli alberi; un grosso gatto di montagna, dal pelame a strisce grigie e macchie nere, parve sbucare dal terreno, frustrato per l’appostamento fallito: per un attimo guardò i cavalli, con la coda sferzò l’aria e sparì sulle tracce del cervo. Ma fra le montagne non si vedeva ancora molta vita animale. Solo una manciata di uccelli era appollaiata sui rami o becchettava il terreno dove la neve si era già sciolta. Ma nel giro di qualche settimana, altri sarebbero tornati fra le vette. Non comparvero corvi.

Ormai era tardo pomeriggio, quando Perrin guidò il gruppetto nel passo fra due ripide montagne dalla cima innevata, ammantata di nubi, e risalì un piccolo torrente che scorreva su sassi grigi in una serie di cascatelle. Fra gli alberi un uccello lanciò il suo richiamo e un altro, più avanti, gli rispose.

Perrin sorrise: il richiamo dei fringuelli azzurri, tipici delle Marche di Confine. Nessuno cavalcava da quelle parti senza che occhi acuti lo scorgessero. Si strofinò il naso e non guardò verso l’albero da cui era giunto il richiamo del primo “fringuello".

La pista divenne più stretta, mentre cavalcavano fra ericacee stente e qualche quercia nodosa. Il terreno, abbastanza piano da permettere di cavalcare lungo il torrente, divenne tanto stretto da consentire appena il passaggio e il corso d’acqua si assottigliò tanto che lo si sarebbe potuto scavalcare con un passo.

Perrin udì che Leya, più indietro, mormorava tra sé. Girò la testa a guardarla: la donna lanciava occhiate agli erti pendii della gola. In alto c’erano alberi sparsi, abbarbicati precariamente: pareva impossibile che non cadessero da un momento all’altro. Gli shienaresi cavalcavano tranquillamente e infine cominciavano a sorridere e a rilassarsi.