Appena lui si era girato a guardare la sala, la donna si era rivolta a una cameriera e non aveva più guardato dalla parte delle scale; ma Perrin era sicuro di non essersi sbagliato: la donna aveva fissato proprio lui.
34
Una danza diversa
Mentre mostrava le stanze, Furlan continuò a chiacchierare, ma Perrin non lo ascoltava: era troppo impegnato a domandarsi se la ragazza dai capelli neri conoscesse il significato degli occhi gialli. Maledizione, guardava proprio lui! Poi udì una frase del locandiere, “...che annuncia il Drago nel Ghealdan...", e pensò che le orecchie gli si sarebbero appuntite come quelle di Loial.
Sulla soglia della propria stanza, Moiraine si fermò di colpo. «C’è un altro falso Drago, locandiere?» domandò. «Nel Ghealdan?» Il cappuccio le nascondeva il viso, ma dal tono pareva scossa fino alla punta dei capelli. Pur ascoltando la risposta del locandiere, Perrin non poté evitare di fissare Moiraine: aveva fiutato un odore molto simile a quello della paura.
«Ah, lady, non temere. Siamo a cento leghe dal Ghealdan e qui nessuno ti darà fastidio, con padron Andra nei pressi e lord Orban e lord Gann. Perché...»
«Rispondile!» ordinò Lan, brusco. «C’è un falso Drago nel Ghealdan?»
«Ah, no, padron Andra, non proprio. Ho detto che un uomo annuncia il Drago nel Ghealdan, così abbiamo sentito dire, qualche giorno fa. Predica il suo avvento, parrebbe. Parla di quel tizio nel Tarabon, di cui è corsa voce. Ma alcuni sostengono che si trovi nell’Arad Doman, non nel Tarabon. Molto lontano da qui, in ogni caso. Be’, da un giorno all’altro m’aspetto che non parleremo d’altro, se non forse delle storie fantasiose sul ritorno degli eserciti di Artur Hawkwing...» Gli occhi gelidi di Lan potevano anche essere lame di coltello, dal modo in cui Furlan deglutì e si sfregò più rapidamente le mani. «Sono le voci che circolano, padron Andra, io non so altro. Si dice che questo tizio ha uno sguardo che t’inchioda; racconta un mucchio di stupidaggini sul Drago venuto a salvarci, dice che noi tutti dobbiamo seguirlo e che perfino le bestie feroci combatteranno per lui. Non so se l’hanno già catturato, ma è probabile. I ghealdani non sopporterebbero a lungo questa sorta di discorsi.»
Masema, si disse Perrin, sorpreso. Era il maledetto Masema!
«Hai ragione, locandiere» disse Lan. «Non è verosimile che questo tizio ci procuri guai qui. Conoscevo un tale che faceva sempre discorsi così folli. Lo ricordi, vero, lady Alys? Si chiama Masema.»
Moiraine trasalì. «Masema? Sì, certo. L’avevo dimenticato. Quando lo rivedrò, rimpiangerà che nessuno l’abbia scorticato per fare con la sua pelle cuoio da stivali.» Entrò e sbatté la porta, così forte da far echeggiare il colpo per tutto il corridoio.
«Non fate fracasso!» gridò una voce soffocata, in fondo al corridoio. «Ho la testa a pezzi!»
«Ah» disse Furlan. «Con tutto il rispetto, padron Andra, lady Alys è donna di gran carattere.»
«Solo con chi la provoca» rispose blandamente Lan. «Morde peggio di quanto non abbai.»
«Ah, ah, ah. Le vostre stanze sono da questa parte. Ah, amico Ogier, quando padron Andra mi ha annunciato il tuo arrivo, ho fatto tirare giù dalla soffitta un vecchio letto Ogier; ha preso polvere per questi ultimi trecento anni, però...»
Perrin non gli prestò più attenzione: era preoccupato per la ragazza dai capelli neri. E per l’Aiel in gabbia.
Appena fu in camera — una stanzetta sul retro: Lan non aveva fatto niente per indurre il locandiere a pensare che Perrin non fosse un servitore -sempre pensieroso, sganciò dall’arco la corda (tenervela a lungo rovinava corda e arco), posò nell’angolo l’arco, mise accanto al lavabo la coperta arrotolata e le bisacce da sella e vi gettò sopra il mantello. Appese ai pioli i cinturoni con la faretra e con l’ascia e quasi si gettò sul letto, prima di ricordare, con uno sbadiglio da slogare la mascella, quanto poteva essere pericoloso. Il letto era piccolo, il materasso pareva tutto bitorzoli: eppure era più invitante che mai. Si sedette invece sullo sgabello a tre gambe e si mise a riflettere. Gli piaceva riflettere sempre su ogni cosa.
Dopo un poco, Loial bussò e fece capolino. Agitava le orecchie e aveva un largo sorriso. «Perrin, non ci crederai!» disse, sprizzando entusiasmo da tutti i pori. «Il mio letto è di legno cantato! Avrà almeno mille anni! Nessun Cantore d’Alberi ha cantato un oggetto così grosso da almeno dieci secoli. Neppure io ci terrei a farlo, eppure adesso sono uno dei pochi in cui il Talento è forte. Anzi, a dire il vero, non siamo più in molti ad avere il Talento. Ma sono davvero fra i migliori, a cantare il legno.»
«Interessante» rispose Perrin. Ma pensava a un Aiel in gabbia: le parole di Min. E si domandava per quale motivo la ragazza avesse fissato proprio lui.
«Pare anche a me» disse Loial, un po’ smontato dalla mancanza d’entusiasmo di Perrin. «Dabbasso la cena è pronta. Hanno preparato quanto avevano di meglio, per soddisfare le richieste dei Cercatori; ma possiamo approfittarne anche noi.»
«Vai pure, Loial. Non ho fame.» Il profumo d’arrosto che saliva dalle cucine non lo interessava. Quasi non si accorse che Loial se ne andava.
Mani sulle ginocchia, tra uno sbadiglio e l’altro, cercò di risolvere il problema. Gli pareva uno di quegli aggeggi che mastro Luhhan fabbricava, pezzi di metallo che parevano collegati in maniera inestricabile. Ma c’era sempre un trucco per dividere i cerchi e le spire: anche nel suo caso c’era di sicuro un trucco.
La ragazza aveva guardato lui. Forse per il colore degli occhi. Ma il locandiere non ci aveva badato e nessun altro ci aveva fatto caso. C’era un Ogier, da guardare; e i Cercatori del Corno, una lady, un Aiel in gabbia nella piazza. Una cosa così trascurabile come il colore degli occhi d’un servitore non avrebbe attirato l’attenzione. Allora perché la ragazza aveva fissato proprio lui?
E l’Aiel in gabbia. Ciò che Min vedeva, era sempre importante. Ma in che modo? Che cosa avrebbe dovuto fare, lui? Avrebbe potuto impedire che quei bambini tirassero sassi all’Aiel. E non serviva ripetersi che con ogni probabilità gli adulti gli avrebbero detto di farsi i fatti suoi, poiché era forestiero a Remen e l’Aiel non lo riguardava.
Non trovò risposte, così riprese da capo a esaminare la situazione. Trovò solo rincrescimento per non essere intervenuto a favore dell’Aiel.
Dopo un certo tempo si accorse che la notte era scesa. La stanza era buia, a parte quel po’ di chiaro di luna che entrava dall’unica finestra. Perrin pensò alla candela di sego e alla scatola con acciarino ed esca, viste sulla mensola del piccolo camino, ma per i suoi occhi la luce era più che sufficiente. Doveva fare qualcosa, si disse.
Si agganciò il cinturone con l’ascia, esitò. L’aveva fatto senza riflettere: portare quell’ascia gli era diventato naturale come respirare. Non gli piaceva. Ma non si tolse il cinturone e uscì.
Al confronto della stanza, il corridoio pareva quasi luminoso, per la luce che veniva dalla scala. Dalla sala comune salivano risate e discussioni, dalla cucina giungevano profumi di vivande in cottura. Perrin andò verso la parte anteriore della locanda, si fermò alla porta della stanza di Moiraine, bussò ed entrò. Si fermò di colpo, rosso in viso.
Moiraine si strinse addosso la vestaglia celeste. «Cosa vuoi?» domandò in tono freddo. Reggeva una spazzola dal dorso d’argento; i capelli le ricadevano sulle spalle in ondate scure e lustre, come se li stesse spazzolando. La stanza era molto più elegante di quella di Perrin, con pannellature di lucido legno, lampade intarsiate d’argento, un bel fuoco nel caminetto di mattoni. Nell’aria aleggiava profumo di sapone alle rose.