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«Pensavo... pensavo che Lan fosse qui» rispose esitando Perrin. «Voi due siete sempre testa a testa e pensavo che lui... pensavo...»

«Cosa vuoi, Perrin?»

Perrin inspirò a fondo. «È opera di Rand?» domandò d’un fiato. «Lan l’ha seguito fin qui e tutto pare insolito... i Cercatori, l’Aiel... ma è stato Rand?»

«Non credo. Ne saprò di più appena Lan mi avrà riferito che cosa scoprirà stanotte. Con un po’ di fortuna, le sue scoperte mi aiuteranno a compiere la scelta.»

«Scelta?»

«Forse Rand ha attraversato il fiume e si è diretto a Tear per le campagne. Oppure ha preso una nave per scendere il fiume fino a Illian, con l’intenzione di prenderne un’altra che lo porti a Tear. A questo modo il percorso si allunga di varie leghe, ma il viaggio si accorcia di vari giorni.»

«Non credo che lo raggiungeremo, Moiraine. Non so come faccia, ma anche a piedi è sempre più avanti di noi. Se Lan ha ragione, ci precede ancora di mezza giornata.»

«Sospetterei quasi che abbia imparato a Viaggiare» disse Moiraine, con una piccola ruga. «Ma se avesse imparato, sarebbe andato dritto a Tear. No, ha in sé il sangue di gente abituata a camminare a lungo e a correre. Ma noi possiamo andare per fiume. Se non lo raggiungiamo, arriveremo a Tear quasi contemporaneamente a lui. O lo aspetteremo là.»

Perrin cambiò posizione, a disagio: aveva colto nella voce di Moiraine una gelida promessa. «Una volta mi dicesti che sei in grado di percepire la presenza di un Amico delle Tenebre o di uno che cammini nell’Ombra» disse. «Anche Lan. Hai percepito qualcosa del genere, qui?»

Moiraine sbuffò forte e si girò verso un alto specchio con eleganti intarsi d’argento sui sostegni. Con la mano tenne chiusa la vestaglia e con l’altra prese a spazzolarsi i capelli. «Ben pochi esseri umani, anche fra i peggiori Amici delle Tenebre, sono nell’Ombra fino a questo punto.» Fermò la spazzola a metà colpo. «Perché l’hai domandato?»

«Nella sala comune c’era una ragazza. Mi fissava. Non te e Loial, come tutti gli altri. Fissava me.»

Moiraine riprese a spazzolarsi i capelli e per un attimo sorrise. «A volte dimentichi d’essere un bel giovanotto. Certe ragazze ammirano un bel paio di spalle.» Perrin borbottò e cambiò posizione. «C’è altro?» domandò Moiraine.

«Ah... no.» Lei non poteva aiutarlo, per le visioni di Min, se non dicendogli quel che lui già sapeva e cioè che erano importanti. E non voleva dirle ciò che Min aveva visto. E neppure che Min aveva visto qualcosa.

Tornato nel corridoio, chiuse la porta e si appoggiò per un momento alla parete. Che figura aveva fatto, entrando così all’improvviso! Moiraine era bella. E probabilmente tanto anziana da essere sua madre. Mat l’avrebbe invitata nella sala comune a danzare. Ma no, neppure Mat era tanto sciocco da fare il filo a un’Aes Sedai. Moiraine sapeva danzare, lui stesso una volta le aveva fatto da cavaliere... rischiando d’inciampare a ogni passo di danza. Meglio smetterla di pensare a Moiraine come a una qualsiasi ragazza, solo perché l’aveva vista in... Era una maledetta Aes Sedai! Meglio pensare a quell’Aiel. Si scosse e scese dabbasso.

La sala comune era piena al massimo; ogni sedia era occupata e vi avevano portato panche e sgabelli; chi non aveva dove sedersi, stava in piedi lungo le pareti. Perrin non vide la ragazza dai capelli neri; attraversò in fretta la sala, senza che nessuno gli rivolgesse una seconda occhiata.

Orban sedeva da solo a un tavolo e aveva allungato su di una sedia con cuscino la gamba fasciata, al cui piede calzava una pantofola; reggeva una coppa d’argento che le cameriere badavano a tenere sempre piena di vino. «Sì» diceva in quel momento all’intera sala «Gann e io sapevamo che gli Aiel sono fieri combattenti, ma non abbiamo avuto il tempo d’esitare. Sguainai la spada e spronai Leone...»

Perrin trasalì, prima di rendersi conto che Orban si riferiva al proprio cavallo. Quello sarebbe stato capace di dire che cavalcava un leone! Ma si vergognò un poco: non lo trovava simpatico, certo, però non era motivo per supporre che il Cercatore arrivasse fino a quel punto, con le smargiassate. Uscì in fretta, senza guardarsi indietro.

Anche nella via c’era folla davanti alla locanda: la gente che non aveva trovato posto nella sala comune scrutava dalle finestre o si ammassava alla porta per ascoltare il racconto di Orban. Nessuno diede a Perrin una seconda occhiata, anche se il suo passaggio sollevò borbottii di lamentela fra quelli accalcati nel vano della porta.

Chiunque fosse in giro, quella notte, era di sicuro alla locanda: infatti, recandosi nella piazza, Perrin non vide nessuno. A volte l’ombra d’una persona si moveva davanti a una finestra illuminata, ma era tutto. Perrin però aveva la sensazione d’essere osservato e si guardò intorno a disagio. Non vide niente, a parte vie ammantate di notte e punteggiate di finestre illuminate. Intorno alla piazza, quasi tutte le finestre erano buie, tranne alcune dei piani superiori.

La forca era sempre allo stesso posto e l’uomo, l’Aiel, si trovava sempre nella gabbia, più in alto di quanto Perrin arrivasse allungando il braccio. Pareva sveglio — almeno, teneva sollevata la testa — ma non guardò verso Perrin. Sotto la gabbia erano sparpagliati i sassi che gli avevano tirato i bambini.

La gabbia pendeva da una grossa fune legata a un anello infilato in una delle sbarre superiori e correva lungo l’asta trasversale, girando intorno a una pesante puleggia, fino a un paio di spuntoni, posti ai lati del palo, all’altezza della cintola d’una persona. La fune in eccesso giaceva in un mucchio disordinato ai piedi della forca.

Perrin si guardò di nuovo intorno, esaminando la piazza buia. Aveva ancora l’impressione d’essere osservato, ma anche stavolta non scorse niente. Tese l’orecchio e non udì niente. Sentiva odore di fumo di comignolo e di cibi in cottura, proveniente dalle case circostanti, di sudore umano e di sangue secco, proveniente dall’Aiel in gabbia. Ma non sentì odore di paura, nell’uomo.

"Il suo peso” pensò. “E poi c’è la gabbia." Si avvicinò alla forca. Non sapeva quando avesse preso la decisione, né se l’aveva presa davvero, ma sarebbe intervenuto.

Agganciò al palo la gamba e fece forza sulla fune, sollevando la gabbia quanto bastava ad avere un po’ di gioco. Capì dal movimento della fune che l’Aiel si era mosso, ma aveva troppa fretta per fermarsi a dirgli che cosa intendeva fare. Grazie al gioco, sciolse la fune avvolta agli spuntoni. Sempre sostenendosi con la gamba agganciata al palo, calò rapidamente a terra la gabbia.

Ora l’Aiel lo guardava, lo studiava in silenzio. Perrin non aprì bocca. Diede una buona occhiata alla gabbia e serrò le labbra. Se costruivano una cosa, anche una gabbia come quella, avrebbero dovuto farla per bene. L’intera parte frontale formava lo sportello, montato su rozzi cardini fatti da mani frettolose, chiuso da un buon lucchetto di ferro che passava in una catena altrettanto malfatta. Perrin esaminò la catena e la girò fino a trovare l’anello più debole, nel quale conficcò la spessa punta dell’ascia. Con una brusca torsione del polso aprì l’anello. Nel giro di qualche secondo sfilò dal lucchetto la catena e spalancò lo sportello della gabbia.

L’Aiel rimase seduto dentro, ginocchia contro il mento, e continuò a fissarlo.

«Allora?» bisbigliò Perrin, con voce rauca. «L’ho aperta. Però, maledizione, non intendo portarti di peso.» Diede una rapida occhiata tutt’intorno. Nella piazza buia niente si moveva, però lui aveva sempre l’impressione d’essere tenuto d’occhio.

«Sei robusto, abitante delle terre bagnate» disse l’Aiel, limitandosi a muovere le spalle. «Ci sono voluti tre uomini, per alzarmi lassù. E ora tu mi fai scendere. Perché?»

«Non mi piace vedere persone in gabbia» bisbigliò Perrin. Voleva andarsene. La gabbia era aperta e gli occhi invisibili lo puntavano. Ma l’Aiel non si muoveva. «Vuoi uscire di lì, prima che giunga qualcuno?»