L’Aiel afferrò la sbarra anteriore posta più in alto e con un solo movimento si tirò in piedi e fuori della gabbia; rimase quasi appeso, sostenendosi alla sbarra. Dritto, sarebbe stato di tutta la testa più alto di Perrin. Diede un’occhiata agli occhi di Perrin (al chiarore della luna risplendevano come oro brunito) ma non fece commenti. «Sono stato là dentro da ieri» disse; pareva Lan. Non per il tono di voce o per la pronuncia, assai diversi; ma per la freddezza, la calma, la fiducia di sé. «Aspetto un momento che mi si sciolgano le gambe. Sono Gaul, della setta Imran degli Aiel Shaarad. Sono uno Shae’en M’taal, un Cane di Pietra. La mia acqua è tua.»
«Be’, io sono Perrin Aybara. Dei Fiumi Gemelli. Sono fabbro.» L’Aiel era fuori della gabbia e lui ormai poteva andarsene. Però, se fosse giunto qualcuno, prima che Gaul fosse di nuovo in grado di camminare, avrebbe dato l’allarme e l’Aiel sarebbe finito di nuovo nella gabbia o addirittura ucciso; in tutt’e due i casi, il suo lavoro sarebbe stato sprecato. «Non ho pensato di portare una bottiglia d’acqua o una ghirba» disse. «Perché mi hai chiamato “abitante delle terre bagnate"?»
Gaul indicò dalla parte del fiume; Perrin non poteva esserne sicuro, nella scarsa luce, ma ritenne che per la prima volta l’Aiel pareva a disagio. «Tre giorni fa, ho osservato una ragazza fare il bagno in un enorme lago d’acqua» disse Gaul. «Sarà stato largo almeno venti passi. Vi... vi nuotava.» Con una mano imitò goffamente l’azione. «Una ragazza coraggiosa. Attraversare tutti questi... fiumi... mi ha quasi snervato. Non avevo mai creduto che potesse esistere una cosa come troppa acqua, ma non pensavo che nel mondo ci fosse tanta acqua quanta ne avete voi delle terre bagnate.»
Perrin scosse la testa. Sapeva che nel Deserto Aiel c’era pochissima acqua, ma non pensava che fosse tanto scarsa da provocare una simile reazione. «Sei molto lontano da casa, Gaul» disse. «Come mai ti trovi qui?»
«Cerchiamo» rispose lentamente Gaul. «Cerchiamo Colui Che Giunge con l’Alba.»
Perrin aveva già udito questo appellativo, in circostanze che lo rendevano sicuro del significato. Luce santa, si tornava sempre a Rand! E lui era legato a Rand, come un cavallo scorbutico viene legato per la ferratura. «Cerchi nella direzione sbagliata, Gaul» rispose. «Lo cerco anch’io: è diretto a Tear.»
«Tear?» ripeté l’Aiel, sorpreso. «E perché... Così dev’essere. La profezia dice che, quando cadrà la Pietra di Tear, lasceremo infine la Triplice Terra.» Quest’ultimo era il termine Aiel per indicare il Deserto. «Dice che saremo mutati e ritroveremo ciò che era nostro e che è andato perduto.»
«Può darsi. Non conosco le vostre profezie. Sei pronto ad andartene? Da un momento all’altro può arrivare qualcuno.»
«Troppo tardi per fuggire» disse Gaul.
Una voce profonda gridò: «Il selvaggio è libero!» Dieci o dodici uomini dal mantello bianco giunsero di corsa nella piazza, con spade sguainate ed elmi conici che scintillavano al chiarore della luna. Figli della Luce.
Come se avesse a disposizione tutto il tempo del mondo, Gaul si tolse con calma dalle spalle un pezzo di stoffa nera e se lo avvolse intorno alla testa: uno spesso velo nero gli coprì il viso, a parte gli occhi. «Ti piace danzare, Perrin Aybara?» domandò l’Aiel. Così dicendo, saettò lontano dalla gabbia, dritto contro i Manti Bianchi in arrivo.
Per un attimo i Manti Bianchi furono colti di sorpresa, ma fu chiaro che all’Aiel occorreva solo quell’attimo. Con un calcio Gaul fece saltare di mano la spada al primo che lo raggiunse; poi, a dita irrigidite, colpì alla gola il Manto Bianco, come se usasse un pugnale, e gli girò intorno, lasciandolo cadere a terra. Al successivo spezzò il braccio, con uno schiocco secco. Spinse l’avversano contro le gambe del terzo e scalciò il quarto in piena faccia. Pareva davvero che danzasse da uno all’altro, senza fermarsi né rallentare, anche se il Manto Bianco che era inciampato nel compagno si rialzava e quello col braccio rotto aveva passato nell’altra mano la spada. Gaul danzava in mezzo a loro.
Perrin ebbe solo un attimo per meravigliarsi: non tutti i Manti Bianchi si erano lanciati sull’Aiel. Appena in tempo impugnò a due mani l’ascia per parare un colpo di punta, la vibrò... e avrebbe voluto gridare, mentre la lama a mezzaluna squarciava la gola dell’avversario. Ma non aveva tempo per gridare, non aveva tempo per rimpiangere il gesto: altri Manti Bianchi seguirono il primo. Perrin odiò le ferite causate dall’ascia, odiò come la lama squarciava cotta di maglia e carne, come spaccava con identica facilità elmo e cranio. Odiò tutto. Ma non voleva morire.
Il tempo parve comprimersi e dilatarsi insieme. Perrin si sentiva come se combattesse da ore, il respiro gli raschiava la gola. Gli avversari parevano muoversi come nella melassa, poi balzare in un istante da dove stavano a dove cadevano. Il sudore gli colava sul viso, eppure pareva freddo come acqua per la tempia. Perrin lottò per la propria vita: non avrebbe saputo dire se lo scontro era durato qualche istante o tutta la notte.
Quando alla fine si fermò, ansimante e quasi stordito, a guardare dodici uomini in mantello bianco distesi sul lastrico della piazza, gli parve che la luna non si fosse mossa affatto. Alcuni Manti Bianchi gemevano, altri giacevano muti e immobili. Gaul era fermo fra di loro, sempre velato, sempre a mani nude La maggior parte dei caduti era opera sua. Perrin rimpianse che non fosse tutta opera dell’Aiel e provò vergogna. Il puzzo di sangue e di morte era intenso, amaro.
«Te la cavi, nella danza delle lance, Perrin Aybara» disse l’Aiel.
Con la testa che gli girava, Perrin borbottò: «Non capisco come dodici uomini si siano scontrati con venti di voi e abbiano vinto, anche se due di loro erano Cercatori.»
«Dicono così?» rise piano Gaul. «Sarien e io siamo stati negligenti, dopo tanto tempo in queste terre agevoli, e il vento soffiava dalla direzione sbagliata, per cui non abbiamo fiutato niente. Prima di rendercene conto, siamo finiti in mezzo a loro. Be’, Sarien è morto e io sono stato messo in gabbia come uno stupido, perciò forse abbiamo pagato a sufficienza. Ora è tempo di correre, abitante delle terre bagnate. Tear: lo ricorderò.» Abbassò infine il velo nero. «Che tu possa trovare sempre acqua e riparo dal sole, Perrin Aybara.» Si girò e corse via nella notte.
Anche Perrin iniziò a correre, poi si rese conto d’avere in pugno l’ascia insanguinata. Ripulì frettolosamente la lama nel mantello di un morto. Si costrinse a rimettere il manico nell’occhiello di cuoio alla cintola e si avviò a passo svelto.
Al secondo passo la vide, snella sagoma ai margini della piazza, in sottane nere e attillate. Lei si girò per correre via; Perrin notò che le sottane erano divise per andare a cavallo.
Prima di giungere al punto dove la ragazza si era trovata, incrociò Lan. Il Custode notò la gabbia aperta e vuota, i mucchi bianchi che riflettevano il chiaro di luna e agitò la testa come se fosse sul punto d’esplodere. Con voce tesa e dura come cerchione di ruota appena fatto, disse: «Opera tua, fabbro? La Luce m’incenerisca! C’è qualcuno che può collegarti a questa storia?»
«Una ragazza» disse Perrin. «Credo che abbia visto. Non voglio che tu le faccia male, Lan! Un mucchio d’altra gente può avere visto. Ci sono tante finestre illuminate.»
Il Custode prese Perrin per la manica e gli diede uno spintone verso la locanda. «Ho visto una ragazza che correva, ma ho pensato... Non importa. Cerca l’Ogier e portalo giù alla stalla. Dopo questa storia, dobbiamo portare i cavalli al molo, al più presto possibile. Solo la Luce sa se c’è una nave che salpa stanotte o quanto dovrò pagare per noleggiarne una, in caso contrario. Non fare domande, fabbro! Ubbidisci! Di corsa!»
35
Il Falco
Grazie alle gambe più lunghe, Lan distanziò Perrin; quando quest’ultimo si fece strada fra la folla accalcata sulla soglia della locanda, il Custode già saliva le scale, senza dare l’impressione d’avere fretta. Perrin si costrinse a camminare con altrettanta lentezza. Dalla porta provennero lamentele contro chi spingeva per farsi largo.