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L’indomani a matino si sarebbe fatto la scarpinata.

Niscì presto, la giornata promittiva sereno e a metà matinata il sole avrebbe battuto forte, meglio evitare la calura.

La trazzera era tutta un’acchianata tra fossi e lastroni di pietra e a un certo momento la jeep non ce la fece più. Non restava che continuare a pedi.

Pigliò dalla machina il megafono che si era portato appresso per parlamentare con Ciccino senza rischiare di attrovarsi svociato e se lo mise a tracolla. Caminò per un quarto d’ora.

Lo scosceso viottolo da capre che stava percorrendo era circondato, a mano manca e a mano dritta, da fitte macchie di piante serbaggie, a tratti formavano una specie d’impenetrabile parete spinosa. Il silenzio era totale, si sarebbe potuta sentire una serpe frusciare in mezzo all’erba. Respirò a funno quell’aria frisca, bona, che odorava di resina.

A un tratto, a mano dritta, la parete verde s’interruppe, si aprì a una specie di minuscolo belvedere sotto il quale, a strapiombo, si vidivano le ultime case del paìsi, quelle che avivano la torma eli una prua.

Ristette tanticchia a taliare il panorama, calcolò che gli ammancava un altro quarto d’ora scarso per arrivare alla casa di Ciccino. Ripigliò a caminare, la testa vascia pirchì era assorto a pinsare alle parole giuste da usare per convincere quel povirazzo a consegnargli il fucile e per persuaderlo, soprattutto, a non fare cose di danno verso se stesso.

Tutto ’nzemmula si bloccò. Aveva percepito davanti a lui un movimento fulmineo. Non visto, non udito, ma proprio appena percepito attraverso quel senso misterioso e armalisco che certe volte si risveglia nell’uomo e l’avverte di un possibile pericolo.

Isò l’occhi.

A pochi metri di distanza, il viottolo, deserto, faciva una curva. Ma proprio vicino alla curva, a mano manca, la parete di arbusti stava finendo di ricomporsi in un tremare di foglie e un vibrare di rami.

Capì subito che qualcuno che scendeva per il viottolo, fatta la curva, aveva visto lui che saliva e si era immediatamente nascosto. Qualcuno che aveva scanto di incontrare un carabiniere in divisa, qualcuno che non aveva nessuna gana di farsi riconoscere, qualcuno che…

L’istinto ebbe la meglio, senza manco rendersene conto il maresciallo scattò, si tuffò dintra la macchia dalla stissa parte dell’altro, con tutto il peso del suo corpo si aprì un varco, una nicchia, mentre il punto dove s’attrovava un attimo prima veniva spazzato da una raffica assordante. L’altro aviva usato un kalashnikov.

E che potiva fare lui con la sua arma d’ordinanza?

Avvertì d’aviri la fronte vagnata di sudore, ci passò la mano e s’addunò ch’era macchiata di sangue. Le spine della pianta serbaggia gli avivano lacerato la faccia, le mano e ora s’attaccavano alla giacca e ai pantaloni facendogli difficili i movimenti.

Tirò fora l’arma. Quindi isò il vrazzo e sparò un colpo in aria gridando: «Arrenditi! Sono il maresciallo…».

Un’altra raffica, questa volta pericolosamente vicina, gli troncò la frase. E, assieme alla frase, troncò macari alcuni rametti che quasi toccavano la sua testa.

Questo m’ammazza quando vuole, pensò il maresciallo.

La posizione nella quale si trovava era troppo pericolosa, abbisognava assolutamente mettersi tanticchia più al coperto. Ma per ottenere questo risultato era necessario che l’avversario fosse costretto a cangiare a sua volta di posto.

Ma come fare?

Allora gli venne in mente che aviva con sé il megafono. Se lo portò alla bocca, inspirò profondamente, parlò.

«Colamonaci!…»

«… onaci… onaci…» ripeté l’eco.

«È qui davanti a me! L’abbiamo preso! Venite avanti da sinistra! Tortorici!»

«… rici… rici…» ripeté l’eco.

«Voi venite da destra! L’abbiamo circondato!»

Allora vitti l’omo sbucare come una lepre, percorrere il viottolo, sparire oltre la curva.

Niscì fora dalla macchia macari lui – la tasca mancina, impigliata tra i rami spinosi, si lacerò – si gettò all’inseguimento.

Prima della curva si fermò col sciato grosso e col batticore che gli impedivano di sentiri se l’omo con il mitra continuava a scappare o se se ne stava immobile a due passi da lui ad aspettare che compariva per astutarlo con una raffica precisa.

Arriniscì a calmarsi quel tanto che bastava per appizzare le orecchie.

Nessuna rumorata, solo un cane abbaiava lontano.

Col busto calato in avanti fece due passi e si trovò alla fine della curva. Sporgì cautamente la testa.

Davanti a lui il paesaggio cangiò di colpo. Il viottolo continuava, senza pareti di piante serbaggie, visibilissimo, per un lungo tratto in mezzo a una sorta di grande pianoro coltivato a pascolo, dopo ripigliava a inerpicarsi sulla montagna. Non c’era traccia dell’omo in fuga.

Evidentemente aviva addeciso di non seguire più il viottolo, forse pinsava di andare a sbattere contro gli altri carabinieri chiamati dal maresciallo. Che non esistevano, certo, ma lui non lo sapiva.

A mano dritta, la riconobbe subito, c’era la casa di Ciccino circondata dall’orto protetto dalla bassa palizzata.

Porta chiusa, finestre sbarrate, la casa pariva disabitata.

In mezzo all’orto sorgeva un pozzo con torno torno un muretto alto tanticchia di più di un metro. Il maresciallo non ebbe dubbio. L’omo non aviva che due posti dove starsene ammucciato: o darrè la casa di Ciccino ad aspittare che venisse allo scoperto o s’attrovava ancora più vicino, rannicchiato dietro il muretto del pozzo, pronto a saltare in piedi come una molla e a sparare.

Ci pinsò sopra tanticchia e arrivò alla conclusione che la prima ipotesi era sbagliata: l’omo non aviva avuto il tempo niccissario ad arrivare fino a darrè la casa, sicuramente però aviva avuto il tempo di saltare la palizzata e rifugiarsi dietro il muretto del pozzo.

L’unica era fare una prova. Una prova che però viniva a costare una cartuccia e lui, in proposito, non è che era particolarmente ricco. Un caricatore e basta. Ma ne valeva la pena.

Puntò, sparò contro il pozzo, si gettò pancia a terra.

La risposta arrivò immediata, la raffica potò una para d’arbusti. Ma il maresciallo aviva saputo accussì quello che voleva: l’omo era darrè il muretto.

Sempre restando pancia a terra, si mosse in avanti facendo forza sui gomiti e, strisciando come una serpe, arriniscì a infilare la testa tra i rami di un arbusto e a taliare. La posizione nella quale si trovava era ottima, da lì arrinisciva a tenere sotto controllo il pozzo. Vidiva macari la porta inserrata della casa.

E ora, che fare?

La situazione minacciava di addivintare sempre più pericolosa via via che il tempo passava. L’omo ben presto si sarebbe fatto pirsuaso che i rinforzi non sarebbero mai arrivati e allora potiva succedere di tutto. Conveniva parlamentare.

Portò il megafono alla bocca. Ma adoperò, per quanto possibile, un tono basso e convincente, quasi sussurrato. Tanto l’omo lo sentiva lo stesso, s’attrovava a una ventina di metri di distanza.

«Me lo spieghi che vuoi fare? Da dove sei non ti puoi muovere, lo capisci? Arrenditi, getta il mitra.»

Un’altra raffica, istintivamente il maresciallo incassò la testa tra le spalle.

Quando taliò nuovamente, vitti, con stupore, che la porta della casa di Ciccino era mezza aperta.

Che veniva a significare?

La porta si raprì ancora tanticchia, lentamente, per non fare rumorata. Allora nella testa del maresciallo ci fu come un lampo di luce. Aviva capito tutto. Doviva assolutamente fare in modo d’attirare su di sé tutta l’attenzione dell’omo.