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Ripigliò a parlare con fatica, ogni parola gli pisava.

«Questo medaglione si rapre in due, come la cassa di un ralogio. Io, quanno l’arrigalai a Marta, mi fici fare una fotografia della mè faccia, la ritagliai e ce l’infilai. Quanno Marta morì, mi venne gana di taliare dintra al midaglione la mè faccia di quarantatrì anni fa. Lo raprii prima che la mittissero nel tabuto.»

Con l’unghia del pollice aprì il medaglione, lo porse al maresciallo.

«Taliasse vossia.»

Il maresciallo taliò la foto. Quella, macari a tener conto delle alterazioni dovute agli anni, non era certamente la faccia di Ciccino.

Era invece la faccia coi baffetti sottili di un picciotto di una vintina d’anni, simpatico, sorridente. Aviva un’ariata spavalda d’altri tempi. Teneva il colletto della cammisa bianca aperto e rivoltato sul collo della giacchetta, alla sportiva, come si usava verso gli anni ’40, e macari i capelli erano dell’epoca, pittinati lisci lisci e impiccicati sulla testa da una spessa passata di brillantina. Il picciotto portava inoltre un piccolo distintivo all’occhiello, impossibile capire di cosa si trattava, ma dalla forma al maresciallo venne in mente che potiva essiri il distintivo fascista che allora era obbligatorio mettere in mostra. La foto risaliva a quegli anni, non c’era dubbio.

«Lo conosci?»

«Mai visto.»

«Sicuro? Vedi, Ciccino, questa fotografia è stata fatta di certo verso il 1940 e quindi…»

«E quindi io non c’ero, allura, in paìsi.»

Il maresciallo con l’unghia tirò fora la piccola foto in parte sbiadita, la girò, darrè non c’era scritto nenti, la rimise a posto.

«E dov’eri?» spiò.

«A fari la guerra» disse Ciccino.

«Quanti anni avevi?»

«Nel ’40? Avivo vintidù anni, ma ero sutta all’armi da quanno ni aviva diciannovi. Appena scoppiò la guerra, mi spedirono al fronti. Prima in Francia, appresso in Libia.»

«Quando sei tornato a Belcolle?»

«Tardo. Gli inglisi mi pigliaro prigionero e mi portaro in India. Tornai che era il 1947. Avivo vintinovi anni.»

«Eri l’unico figlio mascolo?»

«No. C’era me frati Antonio, ma lo mannarono in Russia e non tornò più. A farla brevi, doppo tanticchia che ero arrivato, mè patri e mè matri accomenzarono a parlare di matrimonio. Mi dicivano, ed era veru, che io oramà stavo addivintanno troppo vecchiu per maritarmi.»

«E tu?»

«Io ero ancora troppo strammato, troppo confuso per tutto quello che avivo visto e avivo passato. La guerra, i compagni morti, la prigionia, la fame. Non arrinisciva a rimettermi.»

«Che facevi?»

«Caminavo. Mi sono fatto a pedi tutte le muntagne torno torno. Appresso m’addecisi. Avivo posato l’occhi supra a una picciotta, Marta Bianco, che aviva tri anni meno di mia e che ci accanoscevamo da picciliddri. Mentre ero in prigionia, qualche volta ci pinsai a Marta. Mi spiavo se aviva trovato un partito bono, se aviva figli. Doppo che tornai seppi da mè soro Gasparina che Marta non solo non si era maritata, ma non aviva avuto manco ziti. Era come se voliva aspittarmi. Ci maritammo nel 1950. Figli non se sono vinuti. Abbiamo campato per quarantatrì anni d’amuri e d’accordo. Non ci siamo mai lassati. Non c’è stata una notti che non abbiamo dormuto ’nzemmula. Una matina che non abbiamo rapruto l’occhi ’nzemmula. E ora sta bella surprisa. Vinissi con mia.»

Si susì a fatica, principiò ad acchianare la scala. Il maresciallo lo seguì.

Nella cammara di sopra il letto matrimoniale era in ordine, cummigliato da una coperta. Allato c’era invece una brandina con il linzolo stazzonato che strisciava ’n terra, il cuscino era addivintato giallognolo.

«Da quanno Marta è morta, non arrinescio più a dormire solo nel letto granni» fece Ciccino con la voce che gli si spezzava.

«Ragioniamo» principiò il maresciallo.

«Che voli ragionare?»

«Stammi a sentire. Quella foto risale al ’40. Quindi la storia tra Marta e questo picciotto, se c’è stata, è capitata prima del vostro matrimonio».

«D’accordo con vossia» disse fermo Ciccino «ma nella testa di mè mogliere questa storia non è finita mai. Il medaglione lo dimostra. E io sto niscenno pazzo. Devo almeno sapiri chi è.»

«E quando l’hai saputo, che te ne viene?»

«Non lo saccio. Ma accanoscenno chi era, come si chiamava, che faciva, posso forse capiri pirchì Marta gli ha voluto tanto beni, pirchì l’ha sempre pinsato per tutti i quarantatrì anni del nostro matrimonio. E forsi posso riuscire alla fine a capacitarmi, a farmi una ragione.»

Il temporale si stava allontanando.

Fu allora che l’altro temporale, quello che Ciccino era riuscito fino a quel momento a dominare, esplose in un pianto dirotto. L’omo mise le vrazza sul tavolo, vi appoggiò la testa, lasciò che il suo corpo fosse sconvolto dai singhiozzi mentre un lamento come di vestia ferita gli nisciva dalle labbra.

«Sfogati, sfogati» gli disse il maresciallo. E per pudore scinnì la scala, andò alla porta, si mise a taliare fora.

La pioggia aviva lavato arboli, piante, pietre, il paesaggio delle montagne vicine sbrilluccicava di colori, pariva che era stato finite di pittare in quel momento. L’aria era tanto pulita e frisca da essiri frizzante.

Il maresciallo respirò a fondo, come a volersi puliziare del dolore, della desperazione che aviva respirato dintra la cammara di Ciccino.

Ne sentì la voce, vicinissima.

«Mi aiutasse, pi carità.»

Si voltò. Ciccina era arrivato alle sue spalle con la faccia ancora rigata dalle lagrime, con l’occhi ancora lucidi di pianto.

«Mi aiutasse. Vossia lo può.»

«E come, Ciccino?»

«Tinisse il medaglione.»

Lo porse al maresciallo che automaticamente lo pigliò in mano.

«Che me ne faccio?»

«C’è la fotografia. Vossia può informarsi in paìsi, fari domande… Vossia può arrinesciri a sapiri di chi è quella faccia… Maresciallo, a vossia tutti lo stimano e l’arrispettano, capace che ci dicono cose che a mia non me le vogliono fari sapiri…»

«È passato troppo tempo, Ciccì»

«E vossia ci pruvasse. E se non attrova nenti, pacienza, veni a dire che il destino voli accussì, farmi moriri dispirato.»

«E va bene, ci provo. Dammi una settimana di tempo» fece il maresciallo intascando con un sospiro il medaglione. «Ma tu, mi raccomando, cerca nel frattempo di non tare fesserie. Mi sono spiegato?»

«Sissì. Grazii.»

Quanno arrivò all’inizio della curva del viottolo, che per la pioggia si era cangiato in un ammasso di fango scivoloso, si voltò. Ciccino era ancora sulla porta che lo taliava allontanarsi.

Ma chi glielo aviva fatto fare a gettarsi a testa sotto in quell’impresa? Se lo spiò arraggiato con sé stesso mentre scinniva lungo la trazzera con passetti da mezzo paralitico per evitare il rischio di sciddricare e allordarsi di fanghiglia.

Come mai si era lasciato contagiare dalla pazzia di quell’omo? Sì, era inutile negarlo o adoperare altre parole: si trattava di una pazzia pura e semplice. Ciccino aviva detto che a lui la faccia di quel picciotto non era nota. Dunque doviva trattarsi di qualcuno, un forestiero, arrivato a Belcolle nel 1940, o negli anni immediatamente successivi, e che nel 1947, data del rientro di Ciccino, era già andato via. Un soldato? Ma durante la guerra, a stare a quanto aviva appreso dai paisani, a Belcolle non c’erano stati presidii militari. Anzi, a dirla tutta, la guerra si era scordata di Belcolle, non l’aviva mai voluta pigliare in considerazione. Tanto che, sempre a dire dei paisani, in quegli anni terribili Belcolle era stato un posto accussì sicuro che molta gente dai paesi più martellati dai bombardamenti si era trasferita lì.

Un momento! Forse quel picciotto era uno sfollato. Qualcuno che era stato sì a Belcolle, ma per poco tempo. Come dire un fantasma.