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La gran parte degli adulti dormiva cinque o sei ore su ventiquattro, distribuite in numerosi sonnellini brevi; gli adepti dormivano ancor meno, fino a un minimo di due ore su ventiquattro, così, se ci si limitava a dare l’etichetta di "pigrizia" ai loro brevi sonni e ai loro stati di sogno, si poteva dire che non dormivano mai.

Era molto più facile fare così che comprendere ciò che essi facevano in realtà. In quel momento, a Tuntar, le cose stavano appena ricominciando a rimettersi in moto dopo il rallentamento della sera.

Lyubov notò la presenza di molti estranei. Essi lo fissarono, ma nessuno si avvicinò; erano delle semplici presenze che camminavano lungo altri sentieri, nell’ombra delle grandi querce. Alla fine, sul suo cammino giunse qualcuno che lui conosceva: Sherrar, la cugina della donna-capo, una vecchia che aveva poca importanza e poca intelligenza.

Lei lo salutò civilmente, ma non seppe o non volle rispondere alle sue domande sulla donna-capo e sui suoi due principali informatori, Egath il coltivatore di alberi da frutto e Tubab il Sognatore. Oh, la donna-capo era molto indaffarata, e chi era Egath, forse lui intendeva Geban, e Tubab forse era lì o forse laggiù, o magari chissà dove.

Lei rimase con Lyubov, e nessun altro parlò con lui. Si fece strada, accompagnato dalla vecchietta zoppicante, lamentosa, minuscola e verde, tra i solchi e i boschetti di Tuntar, fino alla Loggia degli Uomini.

— Là dentro hanno un mucchio di lavoro — gli disse Sherrar.

— Sognano?

— E come potrei saperlo? Vieni con me, Lyubov, andiamo a vedere…

Sapeva che Lyubov voleva sempre vedere le cose, ma non sapeva immaginare cosa fargli vedere per trascinarlo via.

— Vieni a vedere le reti da pesca — disse debolmente.

Una ragazza che passava lì vicino, una delle Giovani Cacciatrici, alzò lo sguardo su di lui: un’occhiata nera, uno sguardo carico di animosità, quale lui non aveva mai ricevuto da alcun Athshiano, tolto forse qualche bambino piccolo, spaventato, fino al punto di accigliarsi, dalla sua alta statura e dalla sua faccia senza pelo. Ma quella ragazza non era affatto spaventata.

— D’accordo — disse a Sherrar, sentendo che l’unico corso a lui possibile era quello della docilità. Se gli Athshiani avevano realmente sviluppato… dopo tanto, e d’improvviso… il senso dell’inimicizia di gruppo, allora lui doveva accettare questo stato di cose, e semplicemente cercare di dimostrare loro che era sempre un loro amico fedele, immutabile.

Ma come poteva essere cambiato così in fretta, dopo così tanto tempo, il loro modo di sentire e di pensare? E per quale ragione? Al Campo Smith, le provocazioni erano state immediate, e intollerabili: la crudeltà di Davidson era capace di spingere alla violenza perfino gli Athshiani. Ma quella città, Tuntar, non era mai stata attaccata dai terrestri, non aveva subito incursioni per la cattura di schiavi, non aveva visto disboscare o incendiare la foresta locale.

Lyubov stesso, era stato laggiù… l’antropologo non può sempre lasciare la propria ombra fuori del quadro da lui ritratto… ma non c’era più stato negli ultimi due mesi. Gli abitanti avevano ricevuto la notizia di Campo Smith, e adesso tra di loro c’erano dei rifugiati, ex schiavi, che avevano subito offese per mano dei terrestri e che ne avrebbero parlato. Ma potevano una notizia e qualche diceria cambiare gli ascoltatori, cambiarli radicalmente?… visto che la loro non-aggressività era così profonda, penetrava fino alle radici della loro cultura e della loro società e proseguiva nel loro inconscio, nel loro "tempo del sogno" e forse nella loro stessa fisiologia?

Che un Athshiano potesse venire spinto, da atroci crudeltà, a un tentativo di omicidio, lui lo sapeva: l’aveva visto succedere… una sola volta. Che una comunità frantumata potesse venire provocata allo stesso modo, da offese altrettanto insopportabili, lui doveva crederlo: era accaduto a Campo Smith. Ma che racconti e chiacchiere riferite, per quanto potessero essere allarmanti o offensivi, potessero far adirare una comunità stabile di quella gente, fino al punto di farla agire contro i loro costumi e la stessa ragione, farla uscire completamente dal loro intero modello di vita, questo non riusciva a credere. Era una cosa psicologicamente improbabile. Qualche elemento doveva essere sfuggito alla sua analisi.

Il vecchio Tubab uscì dalla Loggia, proprio mentre Lyubov le passava davanti. Dietro al vecchio veniva Selver.

Selver uscì strisciando dalla porta-tunnel, si alzò in piedi, batté gli occhi alla luminosità del giorno, resa grigia dalla pioggia, attutita dalle foglie. I suoi occhi scuri incontrarono lo sguardo di Lyubov, quando li alzò. Nessuno dei due parlò. Lyubov provò un profondo timore.

Mentre tornava a casa con l’elicottero, e cercava con l’analisi il nervo che era stato traumatizzato, si chiese: Perché quel timore? Perché ho avuto paura di Selver? Un’intuizione indimostrabile, oppure una semplice falsa analogia? Una cosa irrazionale in qualsiasi caso.

Nulla tra Selver e Lyubov era cambiato. Ciò che Selver aveva fatto a Campo Smith poteva trovare giustificazione; e anche se non avesse potuto trovarne, la cosa non faceva differenza. L’amicizia che li univa era troppo profonda per poter essere toccata dal dubbio morale.

Avevano lavorato insieme, duramente; si erano insegnati reciprocamente, in un senso più che letterale, le loro lingue. Si erano parlati senza riserve. E l’amore di Lyubov nei riguardi dell’amico era reso ancora più profondo da quella gratitudine che il salvatore nutre nei riguardi di colui al quale ha avuto il privilegio di salvare la vita.

Anzi, fino a quel momento lui non aveva compreso fino in fondo quanto fossero profondi l’amore e la fedeltà che provava nei riguardi di Selver. Che la sua paura fosse in realtà la paura personale che Selver, avendo imparato l’odio razziale, potesse rifiutarlo, nonostante la sua fedeltà, e trattarlo non già come un "tu", ma come "uno di quelli"?

Dopo quella prima lunga occhiata, Selver venne avanti lentamente e salutò Lyubov, tendendo le mani.

Il contatto fisico era uno dei grandi canali di comunicazione, per il popolo della foresta. Tra i terrestri, il toccarsi ha sempre grandi probabilità di implicare minaccia o aggressione, e così per loro non c’è nulla, quasi mai, che stia fra i due estremi: la stretta di mano formale e la carezza sessuale. Tutto quello spazio vuoto era riempito, negli Athshiani, da vari costumi di contatto fisico.

La carezza come segnale e come rassicurazione era altrettanto essenziale, in loro, quanto lo è tra madre e figlio o tra due amanti; ma il suo peso era sociale, e non solo materno o sessuale. Faceva parte del loro linguaggio. Pertanto seguiva dei modelli, era codificata, e tuttavia restava infinitamente modificabile.

«Hanno sempre le zampe addosso» li prendevano in giro alcuni coloni, incapaci di vedere in quegli scambi di contatto qualcosa di diverso dal loro erotismo, che, costretto a concentrarsi esclusivamente sul sesso e poi rimosso e frustrato, invade e avvelena ogni piacere sensuale umano, ogni risposta: la vittoria di un Cupido accecato e furtivo sulla grande madre di tutti i mari e tutte le stelle, tutte le foglie degli alberi, tutti i gesti dell’uomo, Venus Genitrix…

Così, Selver venne avanti con le mani tese, strinse la mano di Lyubov alla maniera terrestre, e poi gli afferrò entrambe le braccia e gliele strofinò poco sopra il gomito. Era alto poco più di metà statura di Lyubov, e ciò rendeva difficile e sgraziato ogni gesto per entrambi, ma non c’era nulla di insicuro o di infantile nel tocco di quelle mani piccole, dalle ossa sottili, dal pelo verde, sulle braccia di Lyubov. Era una rassicurazione. Lyubov fu molto grato di riceverla.