— Selver, quale fortuna incontrarti qui. Desidero tanto parlare con te…
— Non posso, ora, Lyubov.
Aveva parlato gentilmente, ma, nell’udire le sue parole, la speranza di Lyubov in un’amicizia immutata svanì. Selver era cambiato. Era cambiato radicalmente: dalla radice, alla lettera.
— Posso ritornare — chiese Lyubov, con insistenza — un altro giorno, e parlare con te, Selver? Per me è importante…
— Oggi lascio questo luogo — disse Selver, ancor più gentilmente, ma staccando la mano dal braccio di Lyubov, e distogliendo anche lo sguardo.
In questo modo si poneva letteralmente fuori contatto. L’educazione chiedeva che Lyubov facesse lo stesso e lasciasse cadere la conversazione. Ma in tal caso non ci sarebbe stato nessun altro con cui parlare. Il vecchio Tubab non aveva neppure alzato gli occhi su di lui; la città gli aveva girato la schiena. E quell’uomo era Selver, che era stato suo amico.
— Selver, il massacro di Kelme Deva, forse tu pensi che esso ci allontani. Ma invece no. Forse ci porta più vicini. E il tuo popolo nei recinti degli schiavi… sono stati messi tutti in libertà, cosicché non ci sono più offese che si separano. E anche se ce ne fossero… ce ne sono sempre state… io sono sempre… io sono l’uomo che sono sempre stato, Selver.
Dapprima l’Athshiano non diede risposta. La sua strana faccia, i grandi occhi profondamente incassati, i lineamenti forti, distorti da cicatrici e confusi dal pelo corto di seta che seguiva e pure oscurava ogni contorno, questa faccia era voltata dall’altra parte rispetto a Lyubov, chiusa, ostinata. Poi, tutt’a un tratto, girò lo sguardo, come se lo facesse a dispetto delle proprie intenzioni.
— Lyubov, non dovevi venire qui. Devi lasciare la Centrale, tra due notti. Non so che cosa tu sia. Sarebbe stato meglio che non ti avessi mai conosciuto.
E con questo si allontanò: un passo leggero come quello di un gatto dalle lunghe gambe, un guizzo verde, tra le querce scure di Tuntar, sparito. Tubab si avviò lentamente dietro ai suoi passi, anche ora senza degnare Lyubov di un solo sguardo. Una fine pioggerellina cadeva senza rumore sulle foglie di quercia e sugli stretti sentieri che portavano alla Loggia e al fiume. Solo se ascoltavate attentamente potevate udire la pioggia: una musica che si alzava da una moltitudine troppo vasta perché una sola mente potesse afferrarla, un singolo accordo interminabile suonato sull’intera foresta.
— Selver è un dio — disse la vecchia Sherrar. — Adesso vieni a vedere le reti da pesca.
Lyubov declinò l’invito. Sarebbe stata cattiva educazione e cattiva politica fermarsi; e poi lui non ne aveva cuore.
Cercò di dire a se stesso che Selver non aveva rifiutato lui, Lyubov, bensì lui in quanto terrestre. Ma non faceva differenza. Non la fa mai.
Lui era sempre spiacevolmente sorpreso nello scoprire quanto fossero vulnerabili i suoi sentimenti, quanto lo ferisse il rimanere ferito. Questa sorta di sensibilità da adolescente era una vergogna, ormai avrebbe dovuto avere una pelle più coriacea.
La piccola vecchietta, con la sua pelliccia verde tutta spolverata e inargentata di gocce di pioggia, sospirò di sollievo quando lui le disse addio. Mentre metteva in moto l’elicottero, si trovò a sorridere alla vista di lei che zoppicava via, tra gli alberi, con tutta la velocità che le era possibile, come una piccola rana che fosse riuscita a sfuggire a un serpente.
La qualità è una faccenda importante, ma lo è altrettanto la quantità: la dimensione relativa. La normale reazione di un adulto nei confronti di una persona assai più piccola può essere arrogante, o protettiva, o paternalistica, o affezionata, o di sopraffazione, ma qualunque venga a essere la sua forma, è probabile che questa reazione sia più adatta a un bambino che a un adulto. Inoltre, quando la persona con taglia da bambino è coperta da un manto di pelo, un’ulteriore reazione psicologica fa la comparsa; una risposta che Lyubov aveva chiamato "Reazione dell’Orsacchiotto di Peluche". Poiché gli Athshiani usavano molto la carezza, le manifestazioni di questa reazione non erano del tutto fuori luogo, ma le sue motivazioni rimanevano alquanto dubbie. E infine c’era l’inevitabile Reazione al Fenomeno da Baraccone, il cercare di tenersi lontano da ciò che sia umano ma che non ne abbia pienamente l’aspetto.
Ma, del tutto al di fuori di questo, c’era il fatto che gli Athshiani, come del resto i terrestri, erano, a volte, semplicemente buffi. Alcuni di loro avevano davvero l’aspetto di piccole rane, gufi, bruchi pelosi. Sherrar non era la prima dama attempata che, vista dal di dietro, fosse parsa buffa agli occhi di Lyubov…
E questo è uno dei guai della colonia, pensò, mentre faceva prendere il volo all’elicottero e Tuntar svaniva sotto le querce e i frutteti senza foglie. Noi non abbiamo nessuna vecchietta. E neppure dei vecchietti, eccetto Dongh, che del resto ha solo sessant’anni. Ma le vecchie sono diverse da qualsiasi altro tipo di persona, perché dicono sempre quello che pensano.
Gli Athshiani sono governati, entro i limiti di quello che può essere il loro governo, da vecchie donne. L’intelletto spetta agli uomini, la politica alle donne, e l’etica all’interazione di entrambi: questo il loro ordinamento. Ha un suo certo fascino, e funziona… per loro.
Peccato che l’Amministrazione non abbia mandato anche un paio di care nonnine, insieme con tutte quelle giovani donne nubili fertili seno alto. A esempio, la ragazza che era da me la notte scorsa, è davvero una brava ragazza, ed è brava a letto, ha un cuore gentile, ma mio Dio, dovranno ancora passare quarant’anni prima che abbia qualcosa da dire a un uomo…
E per tutto il tempo, al di sotto dei suoi pensieri riguardanti le donne giovani e quelle vecchie, lo shock non si allontanava: l’intuizione o la comprensione che non voleva lasciarsi riconoscere.
Doveva pensarci bene, sviscerare la cosa, prima di fare rapporto al Quartier Generale.
Selver: che dire di Selver, dunque?
Selver era certamente una figura chiave per Lyubov. Perché? Perché lo conosceva bene, oppure a causa di qualche reale potere della sua personalità, un potere che Lyubov non era mai riuscito a individuare consciamente?
Eppure l’aveva individuato; aveva scelto Selver molto presto, riconoscendo in lui una persona straordinaria. "Sam" si era chiamato allora: l’attendente di tre ufficiali che condividevano una baracca prefabbricata. Lyubov ricordava che Benson si vantava del bravo creechie che avevano, l’avevano addomesticato bene.
Molti Athshiani, specialmente Sognatori delle Logge, non potevano cambiare il loro schema di sonno policiclico per accomodarlo a quello terrestre. Se recuperavano il sonno normale nel corso della notte, ciò impediva loro di recuperare il sonno REM, o sonno paradosso, il cui ciclo di 120 minuti regolava la loro vita sia di giorno che di notte, e non poteva venire adattato alla giornata lavorativa terrestre.
Una volta che abbiate imparato a fare i vostri sogni da svegli, a tenere in equilibrio la vostra sanità di mente non sul filo di rasoio della ragione, ma sul doppio supporto, la fine bilancia, della ragione e del sogno, una volta imparato questo, non potete disimpararlo più di quanto possiate disimparare a pensare.
E così, molti degli uomini diventavano storditi, confusi, ritirati in se stessi, perfino catatonici. Le donne, sconcertate e degradate, si comportavano con la scontrosa inquietudine di coloro che sono da poco caduti in schiavitù. I maschi non adepti e alcuni dei Sognatori più giovani si comportavano meglio; si adattavano, lavorando duramente nei campi dei taglialegna o diventando dei bravi servitori.
Sam era stato uno di questi, un cameriere efficiente, privo di fisionomia, cuoco, lavandaio, maggiordomo e capro espiatorio dei suoi tre padroni. Aveva imparato l’arte di rendersi invisibile. Lyubov l’aveva preso in prestito come informatore etnologico, e si era guadagnato subito, grazie a qualche affinità di mente e di natura, la fiducia di Sam. Aveva trovato in Sam l’informatore ideale, esperto dei costumi del proprio popolo, capace di comprendere i significati, e rapido nel tradurli, nel renderli comprensibili a Lyubov, colmando la distanza tra due linguaggi, due culture, due specie del genere Homo.