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«Non ho nessuna intenzione di lasciare che mi prendano. Il momento in cui scoprono le carte, Bel scende e saremo noi a prendere loro. Ma se non danno l’impressione di volermi far fuori subito, potremmo venire a sapere parecchio lasciandoli portare avanti un poco il loro piano. Alla luce della… ah… situazione all’ambasciata, potrebbe valere la pena di correre il rischio.»

Lei scosse la testa in muta disapprovazione.

I minuti seguenti trascorsero in silenzio. Miles stava ripassando mentalmente tutti gli eventuali sviluppi che avevano preso in considerazione per gli eventi di quella sera, quando si fermarono davanti a una fila di antiche case a tre piani che si affacciavano su una strada a mezza luna. Gli edifici erano bui e silenziosi, vuoti, come se stessero aspettando la demolizione o la ristrutturazione.

Ehi guardò i numeri civici sulle porte e aprì il tettuccio. Miles scivolò fuori e rimase in piedi accanto a lei, mentre Ivan, rimasto in macchina, leggeva i sensori. «Non c’è nessuno» riferì.

«Cosa? Non è possibile» disse Elli.

«Forse siamo in anticipo.»

«Balle» disse Elli. «Come dice sempre Miles, segui la mia logica, Quelli che vogliono rapire Lord Vorkosigan ci hanno dato appuntamento a questo indirizzo solo all’ultimo minuto. Perché? In modo che non potessimo venirci prima per controllarlo. Dovevano preparare tutto e aspettare.» Si sporse all’interno della macchina guardando al di sopra della spalla di Ivan, che sollevò le mani in alto, in segno di resa, mentre Elli rieffettuava il controllo con i sensori. «Avevi ragione» ammise alla fine, «ma c’è qualcosa che non mi torna.»

Era la sfortunata coincidenza di un atto di vandalismo, la rottura dei due lampioni proprio in quel punto? Miles scrutò nel buio. «Non mi piace» mormorò Elli. «Non ti legherò le mani.»

«E riuscirai a tenermi buono da sola?»

«Sei drogato fino alla punta dei capelli.»

Con una scrollata di spalle, Miles aprì la bocca, lasciando penzolare la mascella, mentre gli occhi assumevano un’espressione vacua e guardavano in due direzioni diverse. Quando Elli lo prese per il braccio, guidandolo su per i gradini, la seguì con passo malfermo e strascicato. «La porta è aperta» disse Elli, dopo averla spinta. L’uscio si aprì con uno scricchiolio, rivelando l’interno buio.

Con una certa riluttanza, il comandante Quinn rinfoderò lo storditore e sganciò la torcia elettrica dalla cintura, accendendola. Si trovavano in un ingresso: a sinistra una scala malconcia, ai lati della quale due archi conducevano nelle stanze anteriori, vuote e sporche. Con un sospiro, oltrepassò la soglia e chiamò a bassa voce. «Non c’è nessuno?» Silenzio. Entrarono nella stanza di sinistra, illuminando ogni angolo con la torcia.

«Non siamo in anticipo» mormorò, «non siamo in ritardo, l’indirizzo è giusto… dove sono?»

Miles non poteva risponderle senza uscire dalla messinscena. Elli lo lasciò andare, passò la torcia nella mano sinistra ed estrasse di nuovo lo storditore. «Non c’è pericolo che tu vada lontano, pieno come sei» decise, come se stesse parlando tra sé. «Vado a dare un’occhiata in giro.»

Una delle palpebre di Miles tremolò per segnalare che aveva capito; mentre Elli controllava se c’erano microfoni nascosti e sensori, era meglio che lui recitasse fino in fondo la parte di Lord Vorkosigan drogato. Dopo un attimo di esitazione, Quinn si diresse su per le scale… portandosi dietro la torcia, accidenti.

Miles era ancora intento ad ascoltare il rapido e debole scricchiolio dei passi di lei al piano di sopra, quando una mano si posò sulla sua bocca e il raggio di uno storditore al minimo gli sfiorò la nuca.

Si contorse, scalciando, cercando di mordere, di gridare e il suo assalitore emise un sibilo di dolore, rafforzando la presa. Erano in due: gli immobilizzarono le braccia dietro la schiena e gli infilarono un bavaglio in bocca prima che lui riuscisse a chiudere i denti sulla mano. Il bavaglio era impregnato di una droga dolciastra, penetrante, che gli fece dilatare le narici, gli bloccò le corde vocali e gli diede la sensazione di avere perso contatto con il proprio corpo, come se questo si fosse trasferito ad un indirizzo diverso. Poi comparve una luce fioca.

Due uomini robusti, uno giovane e l’altro più vecchio, vestiti con abiti terrestri, si mossero nell’ombra, i contorni del corpo vagamente sfocati. Schermi anti-sensori, maledizione! Ed anche molto, molto efficaci, se erano riusciti ad ingannare l’equipaggiamento dendarii. Miles individuò le scatole di comando legate alla vita, che erano grandi dieci volte meno del modello più recente in dotazione alla flotta. Batterie così minuscole… e anche nuove, a giudicare dall’aspetto. L’ambasciata barrayarana sarebbe stata costretta ad aggiornare le apparecchiature di sicurezza… Storse gli occhi per un attimo, nel tentativo di leggere il nome del fabbricante… e vide il terzo uomo.

Oh, il terzo. Ecco, è successo fu il pensiero sconnesso di Miles, in preda al panico: ho oltrepassato il confine. Il terzo uomo era lui.

L’altro Miles, impeccabile nell’uniforme verde barrayarana, fece un passo avanti e fissò a lungo, con uno sguardo strano, intenso, il suo volto che i due uomini tenevano sollevato. Poi cominciò a svuotare le tasche di Miles: storditore… documento di riconoscimento… mezzo pacchetto di caramelline alla menta… alla vista delle caramelle corrugò la fronte, perplesso, ma poi, con una scrollata di spalle, si mise in tasca anche quelle. Infine indicò la cintura di Miles.

Il pugnale del nonno era stato dato a Miles per espressa volontà testamentaria. Quella lama, vecchia di trecento anni, era ancora flessibile come gomma e affilata come vetro: nel manico ingioiellato era nascosto il sigillo dei Vorkosigan. Glielo tolsero da sotto la giacca e l’altro Miles lo agganciò su una spalla e riabbottonò la tunica. Da ultimo, slacciò la cintura dello schermo anti-sensore e la allacciò attorno alla vita di Miles.

Lo squadrò da capo a piedi per l’ultima volta e nei suoi occhi Miles vide brillare una luce intensa di terrore eccitato. Aveva già visto quello sguardo, sul suo volto, riflesso nella parete di metallo della metropolitana.

No.

Lo aveva visto sul volto del suo alter ego riflesso nella parete di metallo della metropolitana.

Quella sera il suo sosia doveva essersi trovato a pochi passi da lui, alle sue spalle, con l’uniforme sbagliata, quella verde, mentre Miles indossava il grigio dei dendarii.

Be’, questa volta sembra proprio che ce l’abbiano fatta…

«Perfetto» ringhiò l’altro Miles, la cui voce giunse soffocata ma chiara senza lo schermo. «Non c’è bisogno di stordire la donna, non sospetterà di niente. Ve l’avevo detto che avrebbe funzionato.» Trasse un respiro, sollevò il mento e rivolse a Miles un sorriso ironico.

Piccolo impostore, marionetta, me la pagherai, pensò Miles in preda alla furia.

Be’, comunque io sono sempre stato il peggior nemico di me stesso.

Lo scambio aveva richiesto solo pochi secondi. Miles venne fatto uscire dalla porta posteriore e con uno sforzo eroico, mentre oltrepassava la soglia, riuscì a battere la testa contro uno stipite, nel tentativo di attirare l’attenzione di compagni.

«Cos’era quel rumore?» chiese subito Elli dal piano di sopra.

«Sono stato io» rispose prontamente il suo sosia. «Ho dato una controllatina: nemmeno qui sotto c’è nessuno. È andata buca.»

«Tu credi?» disse Elli mentre scendeva le scale. «Potremmo aspettare ancora un po’.»

Poi il suo comunicatore da polso trillò. «Elli?» disse la voce di Ivan. «Ho registrato uno strano segnale sui sensori, un minuto fa.»

Il cuore di Miles fece un balzo.

«Ricontrolla» ordinò il sosia in tono freddo.

«Niente, adesso.»

«E niente nemmeno qui. Temo che qualcosa li abbia spaventati e abbiano mandato a monte l’operazione. Richiama il perimetro difensivo e riportami all’ambasciata, comandante Quinn.»