«Sì, questo me lo ricordo: celle d’energia danneggiate con perdita di radiazioni.»
«Esatto, molto bene. Era stato proprio lei ad individuare il difetto mentre le scaricava per inventariarle. Probabilmente un altro si sarebbe limitato ad immagazzinarle.»
«Non nella mia squadra» mormorò Siembieda.
«Siamo stati assaliti da una squadra cetagandana al magazzino. Non siamo riusciti a scoprire se c’era stata collusione, anche se abbiamo sospettato che ce ne fosse in alto loco, ma le autorità ci hanno revocato i permessi orbitali e ci hanno invitato ad abbandonare lo spazio di Mahata Solaris. Però può anche darsi che non avessero gradito la confusione creata dal nostro arrivo. Comunque è esplosa una granata gravitica, che ha fatto saltare per aria una parte del magazzino e lei è stato colpito al collo da un frammento di rimbalzo. È morto dissanguato in pochi secondi.» Incredibile la quantità di sangue persa da un uomo così magro, sparsa dappertutto sul pavimento durante il combattimento… mentre parlava, a Miles tornarono in mente la puzza di quel sangue, l’odore di bruciato, ma mantenne un tono di voce fermo e pacato. «Nel giro di un’ora l’avevamo trasportato sulla Triumph e congelato. Il medico era molto ottimista, perché non c’erano danni gravi ai tessuti.» Non come uno dei tecnici, che era stato fatto a brandelli nello stesso istante.
«Mi… mi chiedevo cosa avessi fatto. O non fatto.»
«Non ha avuto il tempo di fare praticamente nulla. È stata la nostra prima vittima.»
Un’espressione sollevata si disegnò sul volto di Siembieda; ma cosa passava per la testa di un morto che cammina? si chiese Miles. Quale fallimento personale poteva temere più della morte stessa?
«Se può esserle di consolazione» intervenne Elli, «quel genere di perdite di memoria è molto comune nelle vittime di traumi di ogni genere. Se chiede in giro, si accorgerà di non essere il solo.»
«Meglio allacciarsi le cinture» disse Miles, mentre la navetta si metteva in linea sulla pista per il decollo.
Siembieda fece un cenno del capo, molto più allegro e si affrettò a prendere un posto.
«Tu ricordi il tuo incidente» chiese Miles a Elli, «o hai un misericordioso vuoto?»
Senza accorgersene, Elli si portò una mano alla guancia. «Non ho mai perso conoscenza.»
La navetta balzò in avanti e in alto… doveva esserci il tenente Ptarmigan ai comandi, pensò Miles. Urla e fischi dalle prime file di passeggeri confermarono quel sospetto. Portò una mano sul pulsante del bracciolo che lo avrebbe messo in contatto con la cabina di pilotaggio ma poi ci ripensò: avrebbe fatto un cicchetto al tenente Ptarmigan solo se la navetta si fosse messa a volare a testa in giù. Fortunatamente per Ptarmigan, il velivolo si stabilizzò in posizione normale.
Miles si sporse per guardare fuori dal finestrino, e vide le luci brillanti della Grande Londra e dell’isola che si allontanavano sotto di loro; tra un attimo avrebbe intravisto la foce del fiume, con le grandi dighe e le chiuse che si stendevano per quaranta chilometri, rimodellando la linea costiera e tenendo a bada al mare e proteggendo i tesori storici e milioni di anime nel bacino del basso Tamigi. In lontananza, contro l’acqua color piombo, spiccava luminoso uno dei tanti lunghissimi ponti che attraversavano il canale della Manica. E così, per amore della loro tecnologia, gli uomini si erano organizzati come mai avevano fatto in nome dei loro principi. La politica del mare era insindacabile.
La navetta virò, guadagnando quota e concedendo a Miles un’ultima visione del grande labirinto di Londra che rimpiccioliva. Laggiù, da qualche parte, in quella città gigantesca, Mark e Galen si nascondevano, o fuggivano o complottavano, mentre la squadra dei servizi segreti di Destang passava al setaccio il vecchio nascondiglio di Galen e la rete telematica, cercando le loro tracce in una mortale partita a nascondino. Certamente Galen avrebbe avuto il buon senso di tenersi lontano dai suoi amici e dai suoi contatti; se avesse limitato le perdite e fosse fuggito adesso, aveva la possibilità di eludere per il resto della sua vita la vendetta barrayarana.
Ma se Galen voleva fuggire, perché era tornato indietro a riprendere Mark? A cosa poteva servirgli il clone, adesso? Era possibile che Galen avesse un vago senso di responsabilità paterna nei confronti della sua creazione? Ma chissà perché, Miles dubitava che fosse l’amore a legarli. Forse il clone poteva essere usato… come servo, come schiavo, come soldato? O magari poteva essere venduto… ai cetagandani, oppure a qualche laboratorio medico, o ad un circo?
O poteva essere venduto a Miles!
Ecco una proposta che persino il sospettosissimo Galen avrebbe accettato. Si poteva fargli credere che Miles voleva un corpo nuovo, libero dalla discrasia ossea che lo aveva perseguitato fin dalla nascita… che avrebbe pagato un prezzo altissimo per quello scopo spregevole… e così Miles sarebbe entrato in possesso di Mark e al tempo stesso avrebbe fornito a Galen una copertura e fondi sufficienti per finanziare la sua fuga, senza che si rendesse conto di essere oggetto di pietà per amore di suo figlio. Quell’idea aveva solo due difetti: primo, se non si metteva in contatto con Galen non poteva neppure fargli la proposta; e secondo, se Galen avesse accettato quel patto diabolico, Miles non era poi così sicuro di volerlo vedere sfuggire alla vendetta barrayarana. Curioso dilemma.
Rimettere piede sulla Triumph era come tornare a casa. Tutta la tensione che Miles non sapeva neppure di aver accumulato nei muscoli cominciò a sciogliersi non appena respirò la familiare aria riciclata e si lasciò sommergere dalle infinitesime vibrazioni e sussurri di quella nave funzionante e viva. Per la prima volta da Dagoola, tutto era ritornato in perfetto stato e Miles prese mentalmente nota di scoprire quale aggressivo sergente del reparto tecnico fosse responsabile di quel miracolo. Sarebbe stato bello tornare ad essere solo Naismith, con problemi semplici, definiti e privi di ambiguità che il QG poteva porre in chiaro linguaggio militare.
Diramò gli ordini: cancellare tutti gli ulteriori contratti sottoscritti dai singoli o da squadre di dendarii; tutto il personale attualmente a terra per lavoro o in licenza veniva richiamato a bordo con un preallarme di sei ore. Tutte le navi dovevano iniziare la sequenza di ventiquattr’ore dei controlli pre-lancio. Cercare il sergente Bone. Venne sommerso dalla sensazione gradevolmente megalomane di attirare ogni cosa verso un centro, che era lui, sensazione che però si raffreddò subito quando rammentò il problema insoluto che lo attendeva nella Divisione Investigativa.
Seguito da Quinn, Miles si recò a far visita alla Divisione Investigativa e trovò Bel Thorne alla consolle di comunicazione. Thorne apparteneva alla minoranza ermafrodita della Colonia Beta, sfortunati eredi di un progetto genetico di dubbio merito del secolo precedente, che a giudizio di Miles era stato il più sconsiderato degli esperimenti sconsiderati. La maggior parte degli uomini/donne restavano abbarbicati alla loro comoda sottocultura sulla tollerante Colonia Beta e il fatto che Thorne si fosse avventurato nella più vasta civiltà galattica dimostrava o un grande coraggio, o una noia mortale o, più probabilmente, se si conosceva Thorne, il cattivo gusto di voler mettere a disagio il prossimo. Il capitano Thorne si acconciava i capelli in uno stile deliberatamente ambiguo, ma indossava l’uniforme dendarii e i gradi duramente guadagnati con una determinazione che non lasciava adito a dubbi.
«Salve, Bel.» Miles prese un sedile e lo assicurò alle morse, mentre Thorne rispondeva con un amichevole mezzo saluto. «Fammi rivedere tutto quello che la squadra di sorveglianza ha trovato nella casa di Galen dopo che io e Quinn abbiamo liberato l’addetto militare barrayarano e lo abbiamo riportato alla sua ambasciata.» Quinn non batté ciglio mentre Miles recitava il suo pezzetto di storia revisionata.
Obbediente, Thorne azionò l’avanti veloce sulla prima mezzora della vicenda, ritornando alla velocità normale sul confuso farfugliare delle due infelici guardie komarrane che si risvegliavano. Poi si udì il trillo della consolle di comunicazione e il raggio video risintetizzò un’immagine di qualità piuttosto scadente di Galen in persona che con la sua voce lenta e priva di inflessioni chiedeva un rapporto sull’assassinio affidato alle due guardie. Quando invece venne a sapere del drammatico salvataggio, esclamò con tono quasi isterico: «Stupidi!» Una pausa e poi: «Non cercate di mettervi ancora in contatto con me.» La comunicazione si interruppe.