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E poi ci fu il giorno, un caldo mattino di autunno, in cui Ender prese il bozzolo accuratamente avvolto in un morbido panno, e con Novinha, Olhado, Quim ed Ela sorvolò chilometri e chilometri di pianure verdi di capim, finché il loro velivolo atterrò sulla collina che si specchiava nel fiume. Le margherite piantate qualche settimana prima imbiancavano l’erba come una nevicata di petali; l’inverno sarebbe stato mite, e la Regina dell’Alveare non avrebbe avuto nulla da temere dalla Descolada.

Ender portò il bozzolo con cautela lungo la riva del corso d’acqua, e lo depose nella camera che lui e Olhado avevano preparato e ripulito. All’esterno di essa, al suolo, lasciarono la carcassa di un cabras appena macellato.

Poi Olhado li riportò indietro in volo. Ender pianse, sommerso dall’incontrollabile estasi che la Regina, vibrante di una gioia superiore alle umane capacità di sopportazione, trasmetteva come una musica silenziosa alla sua mente. Novinha lo strinse a sé, Quim pregò sottovoce, e infine Ela li rallegrò cantando una gaia canzone che aveva registrato fra le colline di Minas Geràis, fra i capiras e i mineiros ancora legati alle tradizioni brasiliane. Era una bella giornata, un buon posto per vivere, migliore di quanto Ender avesse mai sognato per sé negli asettici corridoi della Scuola di Guerra, quand’era un ragazzino solitario e triste che si batteva per il suo diritto di esistere.

— Adesso potrei anche morire — mormorò. — Tutto il lavoro della mia vita è stato fatto.

— Anche il mio — disse Novinha. — Ma questo, credo, significa che è giunto il momento di cominciare a vivere.

Dietro di loro, nell’umida e tiepida aria di una piccola caverna in riva a un fiume, forti mandibole recisero la seta del bozzolo, ed un corpo snello e scheletrico se ne trasse fuori con una serie di deboli sforzi. Le sue ali si distesero per gradi, e all’esterno cominciarono ad asciugarsi nel calore del sole. La creatura vacillò stancamente fin sulla riva, si chinò a sfiorare l’acqua e bevve, lasciando che pian piano la forza affluisse nel suo corpo delicato. Poi si nutrì con un poco di carne di cabras. Le uova già fertili che portava in sé gridavano la loro volontà di schiudersi. Lei ne depose una prima dozzina nelle viscere del cabras; poi mangiò le margherite più vicine, cercando di sentire i mutamenti che avvenivano nel suo corpo mentre finalmente assaporava la vita.

Il sole che scintillava su di lei, la brezza che le allargava le ali traslucide, l’acqua fresca sotto i suoi piedi, le sue uova che si scaldavano e maturavano nella carne del cabras: era la vita, da tanto tempo attesa. E soltanto allora lei sentì d’essere, lì in quel luogo verde e silente, non l’ultima del suo popolo, ma la prima.

FINE