Mentre lo attraversiamo, il ponte non rientra nella roccia. Ai lati sono disposti soldati in alta uniforme, armati di picca o di fucile a energia. In fondo al Kyi Chu ci fermiamo alla Pargo Kaling, la porta occidentale, un arco riccamente ornato alto ottantacinque metri. Da dentro la gigantesca arcata brillano luci che trapelano da migliaia di intricati disegni; il bagliore più vivido proviene dai due grandi occhi, ciascuno del diametro di più di dieci metri, che fissano il Kyi Chu e il Drepung a est.
Ciascuno di noi esita nel varcare la Pargo Kaling. Ancora un passo e ci troveremo nel comprensorio del Palazzo d’inverno, anche se il vero vano d’ingresso è trenta passi più avanti. In quel vano ci sono i mille gradini che ci porteranno al palazzo vero e proprio. Aenea mi ha raccontato che pellegrini da tutti gli angoli di T’ien Shan sono giunti camminando sulle ginocchia o in qualche caso prostrandosi a ogni passo (letteralmente misurando col proprio corpo le centinaia e centinaia di chilometri) solo per avere il permesso di varcare la porta occidentale e di toccare con la fronte l’ultima sezione del Kyi Chu per rendere omaggio al Dalai Lama.
Aenea e io entriamo insieme, scambiandoci un’occhiata.
Mostriamo l’invito alle guardie e ai funzionari alla porta d’ingresso principale e saliamo i mille gradini. Scopro con sorpresa che la scalinata è una scala mobile e Tromo Trochi di Dhomu mi spiega sottovoce che spesso viene lasciata ferma per consentire ai fedeli lo sforzo conclusivo, prima dell’ammissione alle zone superiori del palazzo.
Nel primo dei piani aperti al pubblico c’è un altro rapido controllo degli inviti; poi alcuni servitori prendono in consegna i nostri abiti bagnati e altri ci accompagnano in stanze dove possiamo fare il bagno e cambiarci. Il camerlengo Charles Chi-kyap Kempo ha diritto a una piccola suite al settantottesimo piano del palazzo; dopo quella che pare una camminata di altri chilometri per i corridoi esterni (le finestre alla nostra destra mostrano i tetti rossi del monastero Drepung tremolare e luccicare nella luce tempestosa), siamo ricevuti da altri servitori a noi assegnati. Ogni persona del nostro gruppo ha almeno un’alcova chiusa da tende dove dormire dopo il ricevimento ufficiale; le adiacenti stanze da bagno offrono acqua calda, vasche tradizionali e moderne docce soniche. Seguo Aenea e le sorrido quando mi strizza l’occhio uscendo dalla stanza piena di vapore.
Al Tempio a mezz’aria (e, se per questo, neppure nella nave al momento nascosta sulla terza luna) non avevo veri abiti da cerimonia, ma Lhomo Dondrub e alcuni altri più o meno della mia corporatura mi hanno fornito l’abbigliamento per la festa di questa notte: calzoni neri, lucidissimi stivali neri, camicia di seta bianca sotto un panciotto dorato e una sopravveste a forma di X, di lana rossa e nera, legata alla cintola da una fascia di seta cremisi. La cappa da sera è della più fine seta delle zone occidentali di Muztagh Alta, nera con bordature a complessi disegni di vario colore, rosso, oro, argento, giallo. È la seconda migliore cappa di Lhomo e il mio amico ha messo bene in chiaro che mi butterà giù dalla più alta piattaforma, se la macchio o la strappo o la smarrisco. Lhomo è un tipo bonaccione e accomodante, cosa quasi inaudita per un aviatore solitario, a quanto si dice, ma credo proprio che non abbia scherzato a proposito della sua cappa.
A. Bettik mi ha prestato gli indispensabili braccialetti d’argento, braccialetti da lui acquistati tempo prima per capriccio nei bei mercati di Hsi wang-mu. Sulla spalla mi sistemo il cappuccio rosso di piume e di lana di zigocapra avuto in prestito da Jigme Norbu, che per tutta la vita ha atteso invano un invito al Palazzo d’inverno. Intorno al collo ho una catenina di giada e argento col tradizionale talismano del Regno di mezzo, grazie alla cortesia del capomastro e mio amico Changchi Kenchung, che stamane mi ha detto d’avere partecipato a tre ricevimenti nel palazzo e di essersi annoiato a morte ogni volta.
Servitori in vesti di seta dorata entrano nelle nostre stanze e annunciano che è l’ora di riunirci nella prima sala di ricevimento, vicino alla sala del trono. I corridoi esterni sono pieni di centinaia di ospiti che si muovono nei saloni piastrellati, con fruscio di sete e tintinnio di gioielli, mentre l’aria è piena di odori contrastanti, profumo, colonia, sapone, cuoio. Davanti a noi scorgo brevemente l’anziana Dorje Phamo, la Scrofa Folgore in persona, aiutata da due delle nove sacerdotesse, tutte in elegante tonaca color zafferano. La Scrofa Folgore non porta gioielli, ma si è acconciata i capelli ormai bianchi in elaborate crocchie e trecce legate da nastri.
Aenea indossa una lunga veste di semplice fattura che però lascia senza fiato: seta azzurro cupo, con un cappuccio blu cobalto che copre le spalle nude, il talismano del Regno di mezzo di argento e giada che le scende fra i seni, un pettine d’argento infilato nei capelli per fermare una sottile veletta. Stanotte molte donne portano il velo, per decoro: mi rendo conto che quell’accessorio consente un astuto travestimento alla mia amica.
Aenea mi prende a braccetto e seguiamo il corteo negli infiniti corridoi, giriamo a destra e prendiamo una scala mobile a chiocciola per raggiungere i piani riservati al Dalai Lama.
Mi sporgo verso Aenea e mormoro nell’orecchio coperto dalla veletta: «Sei nervosa?».
Scorgo sotto il velo il luccichio del suo sorriso e sento la sua stretta sulla mia mano.
Insisto e mormoro: «Ragazzina, a volte tu vedi il futuro. So che lo vedi. Perciò… usciremo vivi da qui, stanotte?».
Mi chino, mentre lei si accosta e mi mormora: «Solo poche cose nel futuro di ognuno sono stabilite, Raul. Molte altre sono mutevoli come…» indica gli zampilli della fontana che oltrepassiamo girandole intorno a spirale. «Ma non vedo ragione di preoccuparci, giusto? Stanotte qui ci sono migliaia di ospiti. Il Dalai Lama può salutarne di persona solo alcuni. I suoi ospiti, funzionari della Pax, chiunque siano, non hanno motivo di pensare che noi siamo qui.»
Annuisco, ma non sono convinto.
All’improvviso Labsang Samten, il fratello dei Dalai Lama, viene rumorosamente giù dalla scala mobile in salita, violando ogni protocollo. Sorride e non sta nella pelle per l’entusiasmo. Si rivolge al nostro gruppo, ma centinaia di persone sulla scala mobile si sporgono e ascoltano.
«Gli ospiti venuti dallo spazio sono molto importanti!» annuncia, entusiasta, il monaco. «Ho parlato col nostro precettore che è assistente al secondo in comando del ministro del Protocollo. Non sono semplici missionari, quelli che accogliamo stanotte!»
«No?» dice il camerlengo Charles Chi-kyap Kempo, risplendente nei suoi numerosi strati di seta rosso e oro.
«No» sorride Labsang Samten. «Abbiamo un cardinale della Chiesa della Pax. Un cardinale molto importante. Con parecchi collaboratori d’alto livello.»
Mi sento lo stomaco sfarfallare e poi precipitare in caduta libera.
«Quale cardinale?» domanda Aenea. Dal tono, pare calma e interessata. Ci avviciniamo alla cima della scala mobile e l’aria è piena del mormorio di centinaia o migliaia di ospiti.
Labsang Samten si liscia la formale veste da monaco. «Un certo cardinale Mustafa» dice in tono vivace. «Una persona molto vicina al papa, credo. La Pax onora mio fratello, inviando un ambasciatore.»
Aenea mi stringe il braccio, ma non posso vedere la sua espressione nascosta dal velo.
«E molti altri ospiti importanti della Pax» continua il monaco, girandosi mentre ci avviciniamo al piano del ricevimento. «Comprese alcune donne bizzarre. Militari, ritengo.»