Mi strofino la fronte. Ho un tale mal di testa! Per fortuna non ho bevuto il vino, mi dico. Il vino a volte mi dà l’emicrania. Ridacchio e per un momento mi sento malato e vuoto, lasciato indietro.
Rachel dice: «Non dimenticate che l’ultima pietra sarà sistemata sulla passerella domani a mezzogiorno. Ci sarà una festicciola nella piattaforma di meditazione superiore! Ciascuno porti i propri rinfreschi».
Così termina la serata. Torno su, alla piattaforma per dormire che divido con Aenea; sento una mistura di euforia, aspettativa, rimpianto, imbarazzo, eccitazione e un sordo mal di testa. Ammetto con me stesso di non avere capito nemmeno metà delle spiegazioni di Aenea, ma vado via con un vago senso di disappunto e di inadeguatezza. Sono sicuro, per esempio, che l’ultima cena di Gesù Cristo non si è conclusa con qualcuno che ricordava agli altri di portare i propri rinfreschi alla festicciola sulla piattaforma superiore.
Ridacchio e poi ingoio la risatina. Ultima cena. Le due parole hanno un suono terribile. Il cuore riprende a battermi forte e il mal di testa peggiora. Non è davvero il modo di entrare nella stanza da letto della propria amata!
L’aria gelida sulla passerella più in alto mi schiarisce un po’ la mente. L’Oracolo è appena una falce sulle torreggianti nubi cumuliformi a est. Le stelle paiono fredde, stanotte.
Mentre sto per entrare nella stanza che divido con Aenea e accendere la lanterna, il cielo esplode all’improvviso.
21
Dai livelli inferiori salirono tutti, tutti quelli che erano rimasti nel Tempio a mezz’aria anche dopo avere terminato la maggior parte del lavoro: Aenea e A. Bettik, Rachel e Theo, George e Jigme, Kuku e Kay, Chim Din e Gyalo Thondup, Lhomo e Labsang, Kim Byung-Soon e Vikj Grosely, Kenshiro e Haruyuki, l’abate capo Kempo Ngha Wang Tashi e il suo signore, il giovane Dalai Lama, Voytek Majer e Janusz Kurtyka, l’accigliato Rimsi Kyipup e il sorridente Changchi Kenchung, la Dorje Phamo e Carl Linga William Eiheji. Aenea venne al mio fianco e infilò la mano nella mia: guardammo il cielo, in un silenzio pervaso di timore reverenziale.
Sono sorpreso che non restassimo tutti accecati dallo spettacolo luminoso in atto lassù dove un attimo prima c’erano le stelle: grandi fiori di luce bianca, lampeggi di giallo sulfureo, ardenti striature rosse, molto più luminose della coda di una cometa o della scia di un meteorite, intersecate di sfregi blu, verde, bianco, giallo, ciascuno chiaro e dritto come graffio di diamante su vetro; poi improvvise vampate arancione che parevano ripiegarsi su se stesse in silenziose implosioni, seguite da altri lampeggi bianchi e da una nuova serie di sfregi rossi. Tutto accadeva in silenzio, ma la violenza della luce, da sola, ci faceva venire voglia di coprirci le orecchie e di rannicchiarci in un luogo riparato.
«Per i dieci inferni, che diavolo è?» domandò Lhomo Dondrub.
«Battaglia spaziale» rispose Aenea. La sua voce aveva un tono terribilmente stanco.
«Non capisco» disse il Dalai Lama. Non pareva spaventato, solo curioso. «Le autorità della Pax ci hanno assicurato che avevano in orbita solo una nave, la Jibril mi pare si chiami, in missione diplomatica, non militare. Anche il reggente Reting Tokra me l’ha garantito.»
La Scrofa Folgore sbuffò, aspra. «Il reggente, Santità, è sul libro paga dei bastardi della Pax.»
Il bambino la guardò, sorpreso.
«Credo sia vero, Santità» intervenne Eiheji, la sua guardia del corpo. «Ho sentito delle voci, a palazzo.»
Il cielo era tornato quasi nero, ma ora esplose di nuovo in una ventina di punti. Dietro di noi, la parete rocciosa dello strapiombo sanguinava di riflessi rossi, verdi, gialli.
«Come possiamo vedere le loro lance laser se non c’è polvere o altre particelle colloidali a metterle in rilievo?» domandò il Dalai Lama, con un luccichio negli occhi. A quanto pareva, la notizia del tradimento del reggente non l’aveva sorpreso, o lo interessava meno della battaglia in corso nello spazio, migliaia di chilometri sopra di noi. Notai che la suprema figura sacra del mondo buddhista era stata istruita anche nelle materie scientifiche fondamentali.
Fu di nuovo la sua guardia del corpo a rispondere. «Di sicuro alcune navi sono state già colpite e distrutte, Santità» disse Eiheji. «I raggi di luce coerente e i CPB diventano visibili dove si espandono i campi di detriti, di ossigeno congelato, di polvere molecolare e di altri gas.»
La spiegazione provocò nel nostro gruppo un momento di silenzio.
«Mio padre vide una scena del genere su Hyperion» mormorò Rachel. Si strofinò le braccia nude come se sentisse un gelo improvviso.
Guardai con sorpresa la ragazza. Avevo udito il commento di Aenea sul padre della sua amica, Sol (conoscevo i Canti abbastanza bene da identificare Rachel come la neonata del leggendario pellegrinaggio su Hyperion, la figlia di Sol Weintraub) ma ero rimasto un po’ dubbioso, lo ammetto. Nei Canti la neonata Rachel era divenuta la quasi mitica Moneta, quella che aveva viaggiato a ritroso nel tempo, nelle Tombe, insieme con lo Shrike. Come poteva, quella Rachel, essere qui ora?
Aenea circondò col braccio le spalle di Rachel. «La vide anche mia madre» disse piano. «Ma a quel tempo si pensava che fossero le forze dell’Egemonia contro gli Ouster.»
«E questi chi sono allora?» domandò il Dalai Lama. «Gli Ouster contro la Pax? E perché navi della Pax vengono, non invitate, nel nostro sistema?»
Alcune sfere di luce bianca pulsarono, si dilatarono, si affievolirono e morirono. Battemmo tutti le palpebre per eliminare l’eco retinica.
«Credo, Santità, che le navi da guerra della Pax fossero già qui all’arrivo della loro nave diplomatica» disse Aenea. «Ma non credo che combattano contro gli Ouster.»
«Contro chi, allora?» domandò il bambino.
All’improvviso risuonò una serie di esplosioni completamente diverse dalle altre, esplosioni più ravvicinate, più violente, seguite da tre ardenti scie meteoriche. Una scia esplose subito negli strati superiori dell’atmosfera e provocò una pioggia di detriti più piccoli che in breve si spense. La seconda saettò verso ovest, passò dal giallo al rosso al bianco abbacinante, si frantumò venti gradi sopra l’orizzonte e riversò una serie di scie minori lungo le nubi a ovest. La terza stridette nel cielo dall’ovest dello zenit all’orizzonte orientale (e dico volutamente "stridette", perché udimmo il rumore, dapprima un sibilo da teiera in ebollizione, poi un ululato, poi un terrificante ruggito da tornado, che diminuì con la stessa rapidità con cui si era manifestato) e infine si frammentò verso est in tre o quattro grosse masse ardenti che morirono, tutte tranne una, prima di raggiungere l’orizzonte. L’ultimo frammento ardente di astronave parve dibattersi in volo negli istanti conclusivi, preceduto da vampate di luce gialla che lo rallentavano, e poi scomparve.
Aspettammo ancora una trentina di minuti sulla piattaforma superiore, ma non rimase niente da vedere, a parte decine di fiammeggianti scie di fusione, nei primi minuti: astronavi che acceleravano allontanandosi da T’ien Shan. Alla fine le stelle furono di nuovo gli oggetti più luminosi nel cielo e tutti se ne andarono, il Dalai Lama per dormire nei quartieri dei monaci lì in alto, gli altri per raggiungere i quartieri permanenti o temporanei dei livelli inferiori.
Aenea chiese ad alcuni di noi di trattenersi: a Rachel e a Theo, a Aenea e a Lhomo Dondrub, a me.
«Questo è il segno che aspettavo» disse a voce molto bassa, quando sulla piattaforma restammo solo noi. «Dobbiamo andarcene domani.»
«Andarcene?» ripetei, sorpreso. «Dove? Perché?»
Aenea mi toccò il braccio. Interpretai il gesto come un: "Ti spiegherò più tardi". Rimasi in silenzio, mentre gli altri parlavano.