«Mi spiace, ragazzina» dissi nei suoi capelli, anche se non avrei saputo definire per che cosa esattamente ero dispiaciuto. Era paradossale sentirsi così felice e così miserando nello stesso tempo. Il pensiero di perderla mi faceva venire voglia di urlare, di tirare sassate alla montagna. Quasi a echeggiare le mie sensazioni, il tuono brontolò dal picco a nord.
Le asciugai a baci le lacrime. Poi ci baciammo, il sale delle sue lacrime si mescolò col tepore della sua bocca. Poi facemmo di nuovo l’amore e stavolta fu lento, cauto, fuori del tempo, tanto quanto prima era stato urgente.
Quando fummo di nuovo distesi alla fresca brezza, a contatto di guancia, la sua mano sul mio petto, Aenea disse: «Vuoi chiedermi una cosa. Te lo leggo negli occhi. Cosa?».
Pensai a tutte le domande che mi si erano affollate nella mente poco prima, durante la "discussione", a tutti i suoi discorsi che mi ero perduto e di cui avevo bisogno per mettermi al passo e capire perché la cerimonia della comunione era necessaria: "A cosa serve in realtà il crucimorfo? Che cosa combina la Pax in quei pianeti da cui è scomparsa la popolazione? Che cosa spera di guadagnare il Nucleo in questa storia? Cosa diavolo è lo Shrike, un mostro o un difensore? Da dove è venuto? Che cosa accadrà a noi? Che cosa vede lei nel nostro futuro che dovrei conoscere, in modo che tutt’e due sopravviviamo, che lei eviti la sorte che conosce fin da prima della nascita? Qual è l’immenso segreto dietro il Vuoto che lega e perché è così importante collegarsi a esso? Come faremo ad andarcene da questo pianeta, se la Pax ha davvero affondato nella roccia fusa l’unico teleporter e se ci sono navi da guerra fra noi e la nave del console? Chi sono quegli ’osservatori’ di cui lei ha parlato, che da secoli spiano la specie umana? Cos’è questa storia di imparare il linguaggio dei morti e tutto il resto? Perché Nemes e i suoi cloni non ci hanno ancora ucciso?".
Domandai: «Sei mai stata con un altro? Hai fatto l’amore con altri, prima di me?».
Follia pura. Non erano affari miei. Aenea aveva quasi ventidue anni. Ero già stato a letto con altre donne, non ricordavo il cognome nemmeno di una di loro, ma nella Guardia nazionale, mentre lavoravo nel Casinò Nove Code… che mi fregava se… che differenza faceva se… dovevo saperlo!
Aenea esitò solo un secondo. «La nostra prima volta insieme non è stata… la mia prima» disse.
Mi sentii un porco e un guardone, per averglielo chiesto. Avevo un dolore al petto, reale, simile a quello che, a quanto dicono, si prova per un attacco di angina. Non riuscii a fermarmi. «Lo amavi?» E pensai: "Come faccio a sapere che era un uomo? Theo… Rachel… si circonda di donne". Provai nausea di me stesso per averlo pensato.
«Io amo te, Raul» bisbigliò Aenea.
Era solo la seconda volta che diceva quella frase, la prima era stata quando ci eravamo salutati sulla Vecchia Terra, più di cinque anni e mezzo prima. Nel sentirla mi sarei dovuto esaltare. Ma quelle parole facevano troppo male. C’era qualcosa d’importante che non capivo.
«Però c’era un uomo» dissi, sentendo le parole uscirmi di bocca come sassolini. «L’hai amato…» "Solo uno? Quanti?" Avrei voluto urlare ai miei pensieri di piantarla.
Aenea mi mise il dito sulle labbra. «Io amo te, Raul. Non dimenticartene, mentre ti dico queste cose. Tutto è… ingarbugliato. Da chi sono io. Da ciò che devo fare. Ma ti amo, ti ho amato dalla prima volta che ti ho visto nei sogni del mio futuro. Già ti amavo quando ci siamo incontrati nella tempesta di sabbia su Hyperion, con la confusione e gli spari e lo Shrike e il tappeto Hawking. Ricordi come ti stringevo, quando volavamo sul tappeto Hawking nel tentativo di fuggire? Ti amavo già allora…»
Rimasi in silenzio. Aenea spostò il dito, dalle mie labbra alla guancia. Sospirò, come se avesse sulle spalle il peso d’interi pianeti. «E va bene» disse piano. «Qualcuno c’è stato. Avevo già fatto l’amore. Noi…»
«Era una cosa seria?» la interruppi. La voce mi suonò strana, come quella artificiale della nave.
«Ci siamo sposati» disse Aenea.
Una volta, sul fiume Kans, su Hyperion, mi ero impegolato in una scazzottatura con un barcaiolo più vecchio di me, che pesava quasi il doppio e aveva molta più pratica di zuffe. Senza preavviso mi aveva beccato alla mascella, con un pugno che mi aveva annebbiato la vista, piegato le ginocchia, fatto barcollare contro la ringhiera della chiatta e cadere nel fiume. Il barcaiolo non mi aveva serbato rancore e si era tuffato a ripescarmi. In un paio di minuti avevo ripreso conoscenza, ma erano passate ore, prima che mi togliessi dalla testa il ronzio e riuscissi a mettere a fuoco la vista.
Stavolta fu ancora peggio. Potevo solo restare disteso lì dov’ero, guardare Aenea, la mia amata Aenea, e sentire le sue dita contro la mia guancia, strane e fredde e aliene come il tocco di un estraneo. Aenea scostò la mano.
Non era finita: c’era di peggio.
«I ventitré mesi, sette giorni e sei ore non giustificati» disse Aenea.
«Con lui?» Non ricordavo di avere formulato quelle due parole, ma furono dette con la mia voce.
«Sì.»
«Sposati…» Non riuscii a proseguire.
Aenea sorrise, ma fu il sorriso più triste che le abbia mai visto. «Da un prete» ammise. «Il matrimonio sarà legale agli occhi della Pax e della Chiesa.»
«Sarà?»
«È legale.»
«Sei ancora sposata?» Avevo voglia di alzarmi e di vomitare dall’orlo della piattaforma, ma non riuscivo a muovermi.
Per un momento Aenea parve confusa, incapace di rispondere. «Sì…» disse poi, con occhi lucidi di lacrime. «Cioè, no… non sono sposata, ora… tu… maledizione, se solo potessi…»
«Ma quell’uomo è ancora vivo?» la interruppi, con voce piatta e inespressiva come quella di un inquisitore del Sant’Uffizio.
«Sì» rispose Aenea. Si toccò la guancia. Le dita le tremavano.
«Lo ami, ragazzina?»
«Io amo te, Raul!»
Mi ritrassi leggermente, senza accorgermene, non di proposito; ma non potevo sopportare il suo contatto fisico, mentre discutevamo di quella faccenda.
«C’è un’altra cosa…» disse Aenea.
Rimasi in silenzio.
«Abbiamo… avrò… ho avuto un bambino, un figlio.» Mi guardò come per costringermi a capire solo con la forza del suo sguardo dritto nella mia mente. Non funzionò.
«Un figlio» ripetei stupidamente. La mia cara amica… la mia amica bambina diventata donna diventata amante… la mia amata aveva un figlio. «Quanti anni ha?» dissi, sentendo quella banale domanda come il tuono che brontoli più vicino.
Aenea parve di nuovo confusa, come incerta dei fatti. Alla fine disse: «Il bambino… non è in nessun posto dove possa ora trovarlo».
«Oh, ragazzina» dissi, dimenticando tutto all’infuori della sua sofferenza. La strinsi a me, mentre piangeva. «Mi dispiace, ragazzina… mi dispiace davvero» dissi, dandole dei colpetti sulla testa.
Aenea si scostò, si asciugò le lacrime. «No, Raul, non capisci. È tutto a posto… non è… questa parte è a posto…»
Mi ritrassi e la fissai: era straziata, singhiozzava. «Capisco» dissi. In realtà non capivo un bel niente.
«Raul…» La sua mano cercò la mia.
Le diedi un colpetto sulla mano, ma uscii dal letto, mi rivestii, presi l’imbracatura da scalata e il sacco, lasciati come al solito accanto alla porta.
«Raul…»
«Sarò di ritorno prima dell’alba» dissi, rivolto più o meno verso di lei, ma senza guardarla. «Vado solo a fare due passi.»
«Lasciami venire con te.» Si alzò, avvolta nel lenzuolo. Dietro di lei balenò il lampo. Un’altra tempesta in arrivo.
«Sarò di ritorno prima dell’alba» ripetei e varcai la porta prima che Aenea potesse vestirsi o unirsi a me così com’era.
Pioveva: una pioggia fredda, mista a nevischio. Sulle piattaforme si formò presto una patina scivolosa. Corsi giù per le scale a pioli e percorsi a passo svelto le scalinate vibranti, trovando la strada grazie alla luce dei lampi, senza rallentare finché non fui varie centinaia di metri più in basso sulla passerella della cresta orientale, diretto alla forra dove ero atterrato con la nave. Non volevo andare lì.