Padre LeBlanc balzò fra Briareo e l’arcivescovo Breque. La confusa sagoma argentea sventrò LeBlanc. Breque lasciò cadere gli occhiali e corse a rifugiarsi nella stanza contigua. Briareo scomparve all’improvviso, lasciando solo una soffocata implosione d’aria nel punto dove si era trovata un attimo prima la sua sagoma confusa. Dall’altra stanza provenne un breve grido, interrotto quasi prima di cominciare.
Il cardinale Mustafa arretrò davanti a Rhadamanth Nemes. Quest’ultima mosse un passo avanti per ogni passo che il cardinale muoveva indietro. Aveva spento il campo di tempo rapido che l’aveva resa una sagoma confusa, ma non per questo aveva un aspetto più umano o meno minaccioso.
«Sii maledetta per la lurida creatura che sei» imprecò piano il cardinale. «Fatti avanti, non ho paura di morire.»
Nemes inarcò il sopracciglio. «No, certo, eccellenza. Ma cambierebbe idea se le dicessi che butteremo quei cadaveri e quella testa» indicò Marget Wu, le cui palpebre avevano smesso di battere e i cui occhi avevano uno sguardo fisso, cieco «giù nell’oceano acido, in modo che sia impossibile la risurrezione?»
Il cardinale Mustafa arrivò alla parete e si fermò: Nemes era a soli due passi da lui. «Perché lo fai?» disse con voce ferma.
Nemes si strinse nelle spalle. «Le nostre priorità divergono, per il momento» rispose. «È pronto, Grande Inquisitore?»
Il cardinale Mustafa si segnò e recitò un affrettato atto di dolore.
Nemes sorrise di nuovo: il suo braccio destro e la sua gamba destra divennero confuse sagome argentee. La creatura avanzò.
Il cardinale Mustafa la guardò, attonito. Nemes non lo uccise. Con movimenti troppo rapidi per essere percepiti, gli spezzò il braccio sinistro, gli spappolò il destro, con due calci gli fece mancare le gambe, spezzandole tutte e due, e lo accecò: gli conficcò negli occhi le dita, ma si fermò prima di trapassargli il cervello.
Il cardinale Mustafa fu travolto da un dolore così intenso come non aveva mai provato. Ma udì ugualmente la voce di Nemes, sempre piatta e priva di vita: «Il medibox della navetta o della Jibril la rimetterà in sesto. Abbiamo avvisato le navi, saranno qui a minuti. Quando vedrà il papa e i suoi leccapiedi, riferisca che quelli a cui devo fare rapporto non vogliono la ragazza viva. Ci scusiamo, ma è necessario che muoia. E riferisca di stare attenti in futuro a non fare niente senza il consenso di tutti gli elementi del Nucleo. Addio, eccellenza. Le auguro che il medibox della Jibril possa farle crescere due occhi nuovi. Ciò che siamo impegnati a fare merita di essere visto».
Il cardinale Mustafa udì rumore di passi, il fruscio della porta; poi ci fu silenzio, a parte le terribili grida di dolore di qualcuno. Il Grande Inquisitore impiegò diversi minuti per capire che quelle grida erano sue.
Quando tornai al Tempio a mezz’aria, la prima luce filtrava nella nebbia, ma la montagna restava buia, sgocciolante e gelida. Mi ero ripreso dalla confusione e dal turbamento, mettevo più cautela nella discesa a corda doppia lungo le funi fisse; e fu un bene: varie volte i freni slittarono sulla fune coperta di ghiaccio e sarei precipitato nell’abisso, se le corde di sicurezza non mi avessero bloccato.
Al mio arrivo, Aenea era sveglia, vestita e pronta a partire. Si era messa l’anorak termico, l’imbracatura e gli stivali da montagna. A. Bettik e Lhomo Dondrub erano vestiti come lei e portavano in spalla lunghi fagotti dall’aria pesante, avvolti in nylon. Sarebbero venuti con noi. Altri erano lì per salutarci — Theo, Rachel, la Dorje Phamo, il Dalai Lama, George Tsarong, Jigme Norbu — e parevano tristi e preoccupati. Aenea aveva l’aria stanca: di sicuro neppure lei aveva dormito. Facevamo una bella coppia di avventurieri esausti. Lhomo mi diede uno dei lunghi fagotti avvolti nel nylon. Era pesante, ma lo misi in spalla senza domande né proteste. Presi il resto della mia attrezzatura, risposi alle domande di Lhomo sulle condizioni delle funi per salire fino alla cresta (evidentemente tutti pensavano che con grande altruismo fossi andato a fare un giro di ricognizione) e arretrai di un passo per guardare la mia amica e amata. Aenea mi scoccò un’occhiata interrogativa; risposi con un cenno d’assenso. "Tutto a posto. Sto bene. Sono pronto a partire. Ne parleremo più tardi."
Theo piangeva. Mi rendevo conto che era un addio importante, forse non ci saremmo più rivisti, anche se Aenea rassicurava le altre due donne e diceva che prima di notte ci saremmo riuniti tutti, ma ero troppo intontito emotivamente, troppo esausto per reagire. Mi staccai un momento dal gruppo per respirare a fondo e concentrarmi. Era probabile che nelle prossime ore avrei avuto bisogno di tutta la mia intelligenza e la mia prontezza solo per sopravvivere. "Il guaio di essere appassionatamente innamorato" pensai "è che ti toglie troppo sonno."
Partimmo dalla piattaforma est, scendemmo di buon passo la cornice ghiacciata, passammo davanti alle funi che avevo appena usato e arrivammo senza incidenti alla forra. Gli alberi bonsai e l’alta brughiera parevano antichi e irreali nella mobile foschia di ghiaccio; i rami scuri e le frasche ci schizzavano di gocce sulla testa, quando si stagliavano all’improvviso dalla nebbia. I corsi d’acqua e le cascatelle erano più rumorosi di quanto non ricordassi, mentre il torrente scivolava sopra l’ultima sporgenza e precipitava nel vuoto, alla nostra sinistra.
All’estremo est, nella parte più alta della forra, c’erano delle corde fisse, vecchie e non tanto affidabili; Lhomo si arrampicò per primo, seguito da Aenea, da A. Bettik e infine da me. Notai che il nostro amico androide saliva con la rapidità e l’abilità di sempre, malgrado gli mancasse la destra. Arrivati sulla cresta superiore, avevamo superato il punto più lontano da me raggiunto nel viaggio notturno: la forra faceva da barriera lungo la linea della cresta, dalla parte che avevo seguito io. Ora, mentre seguivamo strettissimi sentieri sul lato sud dello strapiombo, cominciavano sul serio le difficoltà: cornici quasi consumate, affioramenti rocciosi, di tanto in tanto una distesa di ghiaccio, pendii di pietrisco. La cresta sopra di noi era tutta un seracco di neve bagnata e di sporgenze ghiacciate, impossibile da percorrere. Ci muovevamo in silenzio, senza neppure un bisbiglio, ben sapendo che il minimo rumore poteva provocare una valanga che ci avrebbe spazzati in un secondo da quelle cornici larghe dieci centimetri. Finalmente, quando il percorso divenne perfino più difficile, ci legammo in cordata, facendo passare la corda nei moschettoni e agganciandone una doppia alle nostre imbracature: se uno di noi fosse caduto, sarebbe stato trattenuto dagli altri, o saremmo precipitati tutti. Con la salda guida di Lhomo, che scavalcava con fiducia dirupi pieni di nebbia e crepacci nel ghiaccio che avrei esitato a sfidare, ci sentivamo tutti meglio, penso, in cordata.
Ancora ignoravo la nostra destinazione. Ma sapevo che la grande cresta che correva a est dal K’un Lun e oltrepassava Jo-kung sarebbe terminata entro qualche chilometro, sprofondando all’improvviso, spettacolarmente, nelle nubi tossiche vari chilometri più in basso. In certe settimane primaverili, le maree e i capricci dell’oceano facevano scendere i vapori tossici tanto in basso che la cresta emergeva di nuovo, consentendo a carovane di provviste, pellegrini, monaci, mercanti e semplici curiosi di spingersi a est del Regno di mezzo fino al T’ai Shan, il Grande Picco del Regno di mezzo e il più inaccessibile punto abitato del pianeta. I monaci che vivevano sul T’ai Shan, si diceva, non tornavano mai al Regno di mezzo o al resto delle Montagne del cielo: da innumerevoli generazioni avevano dedicato la vita alle misteriose tombe, gompa, cerimonie e templi sul più sacro dei picchi. Ora, mentre il tempo per noi peggiorava, capii che se avessimo iniziato a scendere, avremmo saputo di essere passati dalle turbolente nubi monsoniche alle turbolente nubi di vapori tossici solo quando l’aria venefica ci avesse ucciso.
Non scendemmo. Dopo parecchie ore di viaggio in totale silenzio, giungemmo al precipizio sul confine orientale del Regno di mezzo. Il monte T’ai Shan non era visibile, ovviamente: anche se il cielo si era schiarito un poco, non si vedeva quasi niente, a parte la parete bagnata dello strapiombo davanti a noi e le volute di nebbia e le configurazioni di nubi tutto intorno.