Qui, sul bordo orientale del mondo, c’era un’ampia cornice; ci sedemmo con gioia a riposare, mangiammo panini freddi presi dai sacchi e bevemmo acqua dalle borracce. Le minuscole piante grasse che tappezzavano quell’erta brughiera cominciavano a diventare tumescenti: si rimpinzavano della prima umidità dei mesi monsonici.
Dopo colazione, Lhomo e A. Bettik si misero a disfare i tre pesanti fagotti. Aenea aprì la lampo del suo zaino, che pareva più pesante delle sacche che avevamo portato noi uomini. Non fui sorpreso nel vedere che cosa era avvolto nei tre fagotti: nylon, montanti e intelaiature di lega leggera, sartiame e, nel pacco di Aenea, altra roba del genere, oltre alle due dermotute e ai due riciclo-respiratori che avevo portato con me dalla nave e di cui mi ero in pratica dimenticato.
Sospirai e guardai a est. «Allora cercheremo di raggiungere il T’ai Shan» dissi.
«Sì» confermò Aenea. Cominciò a spogliarsi.
A. Bettik e Lhomo guardarono da un’altra parte, ma io mi arrabbiai al pensiero che altri uomini vedessero la mia amata senza niente addosso. Mi dominai, stesi per terra l’altra dermotuta e cominciai a spogliarmi, ripiegando i vestiti nello zaino man mano che li toglievo. L’aria era fredda e la nebbia mi si appiccicava alla pelle.
Mentre Lhomo e A. Bettik montavano i parapendii, Aenea e io ci vestimmo, per così dire: le dermotute erano proprio ciò che il nome indicava, una seconda pelle quasi alla lettera, ma l’imbracatura e le cinghie dei respiratori ci consentivano un minimo di decoro. Il cappuccio mi fasciò la testa più strettamente di una cuffia da sommozzatore e mi appiattì le orecchie contro il cranio. Solo i filtri auricolari consentivano che il suono si propagasse: una volta in aria, avrebbero raccolto le trasmissioni via filo.
Dai pezzi contenuti negli involti, Lhomo e A. Bettik ricavarono quattro parapendii. Come in risposta alla mia domanda inespressa, Lhomo disse: «Posso solo mostrarvi le termali e assicurarmi che arriviate alla corrente a getto. Non posso sopravvivere a quella altitudine. E non voglio andare al T’ai Shan, viste le scarse probabilità di fare ritorno».
Aenea gli toccò il braccio. «Non abbiamo parole per ringraziarti di guidarci alla corrente a getto.»
Lhamo Dandrub, l’aviatore senza paura, arrossì davvero.
«E A. Bettik?» domandai. Mi accorsi subito di parlare del nostro amico come se non fosse presente; mi girai e gli dissi: «E tu? Non ci sono dermotuta e respiratore per te».
A. Bettik sorrise. Avevo sempre pensato che i suoi rari sorrisi fossero la cosa più saggia che avessi mai visto su lineamenti umani, anche se tecnicamente quell’uomo dalla pelle azzurra non apparteneva alla specie umana.
«Dimentica, signor Endymion, che sono stato progettato per sopportare qualcosa di più dell’essere umano medio.»
«Ma la distanza…» cominciai. Il T’ai Shan si trovava più di cento chilometri a est; anche se avessimo raggiunto la corrente a getto, per quasi un’ora avremmo dovuto muoverci nell’aria rarefatta, troppo rarefatta per consentire la respirazione.
A. Bettik legò le ultime funi al suo parapendio, un grazioso arnese con una grande ala a delta, azzurra, ampia almeno dieci metri, e disse: «Se saremo tanto fortunati da percorrere la distanza, sopravviverò».
Gli rivolsi un cenno d’assenso e mi apprestai a entrare nelle cinghie del mio aliante, senza dire altro, senza guardare Aenea, senza chiederle perché rischiavamo la vita a quel modo, quando all’improvviso la mia amica mi fu al fianco.
«Grazie, Raul» disse abbastanza forte perché tutti udissero. «Fai questo per me solo per amore e per amicizia. Ti ringrazio dal profondo del cuore.»
Mi ritrovai senza parole, imbarazzato perché Aenea ringraziava me quando anche gli altri due erano pronti a saltare nel vuoto per lei. Ma Aenea non aveva terminato.
«Ti amo, Raul» disse, alzandosi sulla punta dei piedi per baciarmi sulle labbra. Si sporse indietro e mi guardò con occhi insondabili. «Ti amo, Raul Endymion. Ti ho sempre amato. Ti amerò sempre.»
Rimasi attonito e sopraffatto, mentre tutti ci agganciavamo agli attacchi del parapendio e ci fermavamo sull’orlo del nulla. Lhomo fu l’ultimo ad agganciarsi. Passò da A. Bettik a Aenea a me, controllò i nostri attacchi, controllò ogni dado, bullone, gancio e saldatura dei nostri alianti. Soddisfatto, rivolse un cenno rispettoso ad A. Bettik, si agganciò alla sua ala rossa, con una rapidità nata da infinita pratica e disciplina, e andò all’orlo del precipizio. Anche le piante grasse non crescevano in quell’ultimo metro, quasi avessero paura di cadere. Io avevo paura e lo sapevo bene. L’ultima cornice rocciosa era fortemente inclinata e viscida per la pioggia. La nebbia si era infittita di nuovo.
«Non sarà facile mantenere il contatto visivo in questa brodaglia» disse Lhomo. «Continuate a girare sulla sinistra. Tenetevi a cinque metri da quello di fronte a voi. Stesso ordine della marcia: Aenea dopo di me nell’ala gialla, poi l’uomo blu nell’ala blu, poi tu, Raul, nell’ala verde. Il rischio più grande è perdersi nelle nuvole.»
Aenea annuì concisamente. «Starò vicino alla tua ala.»
Lhomo guardò me. «Tu ed Aenea potete parlarvi per mezzo del filo di comunicazione della dermotuta, ma questo non vi aiuterà, se vi perderete di vista. A. Bettik e io comunicheremo con segnali della mano. Raul, sii prudente. Non perdere di vista l’aliante dell’uomo azzurro. Se lo perdi, continua a salire, gira in senso antiorario finché non ti trovi sopra le nuvole e allora cerca di rientrare in gruppo con noi. Fai cerchi stretti, mentre sei tra le nuvole. Se allarghi i giri, come si tende a fare in parapendio, andrai a sbattere contro la parete rocciosa.»
Avevo la bocca secca e risposi con un cenno d’assenso.
«D’accordo» disse Lhomo. «Vi rivedrò tutti sopra le nuvole. Allora troverò per voi le termali, stabilirò la forza ascensionale della cresta e vi porterò alla corrente a getto. Quando starò per lasciarvi, vi farò questo segnale.» Strinse il pugno e mosse due volte il braccio. «Continuate a salire e a girare in cerchio. Penetrate il più possibile nella corrente a getto. Alzatevi nei venti atmosferici superiori finché non vi sembrerà che strappino l’ala. Forse la strapperanno davvero. Ma se non entrate nel centro della corrente, non avete nessuna possibilità di raggiungere il T’ai Shan. Ci sono centoundici chilometri fino alla prima spalla del Grande Picco, dove potrete respirare vera aria.»
Annuimmo tutti.
«Possa il Buddha sorridere sulla vostra follia oggi» disse Lhomo. Pareva molto su di giri.
«Amen» disse Aenea.
Senza altre parole, Lhomo si girò e balzò dall’orlo del precipizio. Aenea lo seguì un attimo dopo. A. Bettik si sporse molto avanti nell’imbracatura, diede un calcio alla cornice e in pochi secondi fu inghiottito dalle nuvole. Sgambettai per stargli dietro. All’improvviso non trovai pietra sotto i piedi e mi sporsi in avanti, finché non fui prono sull’imbracatura. Avevo già perso di vista l’ala azzurra di A. Bettik. Le nubi turbinanti mi confusero e disorientarono. Tirai la barra di comando, inclinai il parapendio come mi avevano insegnato e scrutai nella nebbia, cercando uno degli altri alianti. Niente. Mi accorsi troppo tardi di avere esagerato nel tenere la curva. O l’avevo lasciata troppo presto? Misi l’ala in assetto orizzontale, sentii le termali spingere il tessuto sopra di me, ma non riuscii a stabilire se guadagnavo davvero quota, perché ero praticamente cieco. La nebbia era simile a una sorta di terribile cecità da neve. Senza riflettere, gridai, augurandomi che uno degli altri rispondesse al mio grido e mi permettesse di orientarmi. Un grido maschile rimbalzò contro di me da pochi metri, dritto più avanti.
Era l’eco della mia voce contro la parete verticale dello strapiombo che stavo per colpire.
Nemes, Scilla e Briareo lasciano l’enclave della Pax al Fallo di Shiva e si dirigono a piedi verso sud. Il sole è alto e verso est ci sono spesse nuvole. Per andare dall’enclave della Pax al Palazzo d’inverno a Potala, è stata riparata e allargata la vecchia via Alta a sudovest lungo la cresta Koko Nor ed è stata costruita una speciale piattaforma dove la funivia di dieci chilometri corre da Koko Nor al palazzo. Un palanchino preparato apposta per i diplomatici della Pax ora pende dalle carrucole nella nuova piattaforma. Nemes sorpassa la fila ed entra nel palanchino, senza badare alle occhiate della gente in pesante chuba che si ammassa sulla scalinata e sulla piattaforma. Quando i suoi due cloni sono nella gabbia, sgancia i freni e lancia il palanchino al di là dell’abisso. Nubi scure si alzano sopra la montagna del palazzo.