Una squadra di venti guardie palatine con alabarde e rozze lance a energia accoglie Nemes e i due cloni sui gradini della grande terrazza, sul lato ovest della cresta Cappello Giallo, dove il palazzo scende a precipizio per alcuni chilometri lungo la parete orientale. Il capitano delle guardie si inchina e dice in tono deferente: «Molto onorevoli ospiti, dovete attendere qui l’arrivo di una guardia d’onore che vi scorti nel palazzo».
«Preferiamo entrare da soli» ribatte Nemes.
Le venti guardie palatine si acquattano tenendo le lance in posizione di port-arm. Formano un solido muro di acciaio, pellicce di zigocapra, seta, elmi riccamente adorni. Il capitano fa un inchino più profondo. «Mi scuso per la mia indegnità, molto onorevoli ospiti, ma non è possibile entrare nel Palazzo d’inverno senza un invito e una guardia d’onore. L’uno e l’altra saranno qui in un minuto. Se sarete così cortesi da aspettare all’ombra di quella pagoda, onorevoli ospiti, un funzionario di rango appropriato sarà qui in un momento.»
Nemes fa un cenno. «Uccideteli» dice a Scilla e a Briareo. Mentre i suoi cloni mutano di fase, avanza verso il palazzo.
Durante la lunga camminata per i molteplici piani del palazzo, i tre mutano ancora di fase e passano in tempo rapido solo per uccidere le guardie e i servitori che incontrano. Quando escono sulla gradinata principale e si avvicinano alla Pargo Kaling, la grande Porta di Ponente su questo lato del ponte Kyi Chu, trovano la strada bloccata dal reggente Reting Tokra e da cinquecento guardie palatine scelte. Pochi di quei guerrieri d’élite hanno spade o picche, ma molti hanno balestre, fucili a proiettili di piombo, rudimentali armi a energia e mitragliatrici.
«Comandante Nemes» dice il reggente Tokra, con un inchino, ma non tanto profondo da perdere di vista la donna di fronte a lui «abbiamo saputo ciò che avete fatto allo Shivling. Non potete andare oltre.» Rivolge un cenno a una persona in alto nei luccicanti occhi della torre della Pargo Kaling: il ponte di Kyi Chu, di cromo nero, scivola senza rumore sulle guide e rientra nella montagna. Rimangono solo i grandi cavi di sospensione, molto in alto, protetti con filo tagliente e gel privo di attrito.
Nemes sorride. «Cosa fai, Tokra?»
«Sua Santità è andata al Hsuan-k’ung Ssu» dice il reggente dal viso smunto. «So perché volete andare da quella parte. Non vi sarà consentito di fare del male a Sua Santità il Dalai Lama.»
Rhadamanth Nemes allarga il sorriso. «Di cosa parli, Tokra? Per trenta monete d’argento hai venduto al servizio segreto della Pax il tuo caro bambino d’oro. Stiamo barattando per altre di quelle vostre stupide monete a sei facce?»
Il reggente scuote la testa. «L’accordo con la Pax era che Sua Santità non sarebbe mai stato toccato. Ma voi…»
«Noi vogliamo la testa della ragazza, non del vostro lama bambino» dice Nemes. «Fai spostare i tuoi uomini, altrimenti li perderai.»
Il reggente Tokra si gira e latra un ordine. Con viso feroce, i suoi soldati portano alla spalla le armi. Fila su fila, con la propria massa bloccano la via per il ponte, anche se il ponte è già rientrato nella montagna. Nubi scure ribollono nel baratro.
«Uccideteli tutti» dice Nemes e muta di fase.
Lhomo ci aveva addestrati tutti nei comandi del parapendio, ma non avevo mai avuto l’occasione di farne volare uno. Ora, mentre la parete si alzava dalla nebbia di fronte a me, dovevo fare immediatamente la manovra giusta o morire.
L’aliante era manovrato dalla barra di comando che pendeva davanti al passeggero dondolante dall’imbracatura; mi spostai tutto a sinistra per mettere sulla barra il maggior peso possibile consentito dalle cinghie. Il parapendio si inclinò, ma non abbastanza, mi accorsi subito: avrebbe intercettato la parete rocciosa un paio di metri dall’apice esterno del proprio arco. C’era un’altra serie di comandi — maniglie che lasciavano uscire aria dalla superficie dorsale al bordo d’entrata di ciascun lato dell’ala — ma erano comandi pericolosi e complicati, da usare solo in caso d’emergenza.
Già vedevo i licheni sulla parete sempre più vicina. Era un caso d’emergenza.
Tirai con forza la maniglia di sinistra; il nylon sul lato sinistro del parapendio si aprì come un sacco squarciato; la parte destra dell’ala, ancora sospinta dalla forte corrente ascensionale in quel punto della cresta, si inclinò quasi a perpendicolo; il parapendio rischiò di capovolgersi, con l’inutile parte sinistra che lasciava uscire aria come una griglia vuota; le mie gambe furono spinte in fuori di lato e l’aliante minacciò di entrare in stallo e precipitare sulle rocce; i miei stivali strusciarono davvero pietre e licheni; poi l’ala cominciò a cadere quasi a piombo, io lasciai la maniglia sinistra, la memostoffa nel lato sinistro si autoriparò in un istante e volavo di nuovo, ma in picchiata quasi verticale.
Le forti termali che salivano lungo la parete dello strapiombo colpirono l’aliante, con la forza di un ascensore; fui sbattuto verso l’alto e nel ricadere battei il petto contro la barra di comando con tale violenza da restare senza fiato; il parapendio precipitò, salì, cercò di fare una pigra volta con un raggio di sessanta o settanta metri. Mi trovai a penzolare di nuovo quasi a testa in giù: ora avevo l’aliante e i comandi sotto di me, ma la parete rocciosa proprio davanti, come prima.
Brutto affare: avrei concluso la volta contro la parete dello strapiombo. Diedi uno strattone alla maniglia d’emergenza di destra, perdetti portanza, rotolai di lato in una caduta che dava la nausea, sigillai l’ala, tirai le maniglie e la barra di comando, spostai freneticamente il peso del corpo per ritrovare l’equilibrio e il controllo. Le nubi si erano aperte quanto bastava a farmi vedere la parte dello strapiombo a venti o trenta metri alla mia destra, mentre lottavo contro le termali e con lo stesso aliante per avere una traiettoria sgombra.
Poi mi trovai in assetto orizzontale e manovrai quel dannato aggeggio in una spirale a sinistra, ma stavolta con prudenza — massima prudenza — e con un pensiero di ringraziamento allo squarcio nelle nubi che mi aveva consentito di giudicare la distanza dalla parete rocciosa; mi appoggiai tutto a sinistra sulla barra di comando. All’improvviso un bisbiglio mi risuonò nell’orecchio: "Uau! Lo spettacolo era proprio divertente. Ripetilo!".
Sobbalzai nell’udire la voce, guardai in alto e dietro di me. Il triangolo giallo vivo del parapendio di Aenea girava in cerchio sopra di me, molto vicino alle nubi che parevano un soffitto grigio.
"No, grazie" risposi, consentendo ai fili sulla gola della dermotuta di raccogliere le vibrazioni della laringe. "Ho finito di dare spettacolo, credo." Lanciai un’altra occhiata dalla sua parte. "Perché sei lì? Dov’è A. Bettik?"
"Ci eravamo dati appuntamento sopra le nuvole, non ti abbiamo visto e sono scesa a cercarti" disse con semplicità Aenea, in tono basso, al mio orecchio.
Sentii un attacco di nausea, più per il pensiero che Aenea aveva messo a rischio ogni cosa per venirmi a cercare, che non per le violente acrobazie di un momento prima. "Sono a posto" dissi, scorbutico. "Ho solo voluto provare la forza ascensionale della cresta."
"Già" disse Aenea. "È infida. Perché non mi segui su?"
La seguii, sacrificando l’orgoglio alla sopravvivenza. Non era facile tenermi in vista della sua ala gialla nella nebbia in continuo movimento, ma sempre più facile che non volare alla cieca lungo la parete dello strapiombo. Pareva che Aenea percepisse esattamente la posizione della parete: tagliava il nostro cerchio a cinque metri dalla roccia, prendeva la forte parte centrale delle termali, ma senza avvicinarsi o allontanarsi troppo.