Nel giro di qualche minuto uscimmo dalle nuvole. L’esperienza mi tolse il fiato, lo ammetto: prima un lento aumento del chiarore, poi un flusso di luce, poi l’emersione sopra le nuvole come un nuotatore che venga a galla su un mare spumeggiante, poi lo strizzare d’occhi per la vivida luce nell’abbagliante libertà del cielo azzurro e del panorama all’apparenza infinito in tutte le direzioni.
Solo i picchi e le creste più alte erano visibili sopra l’oceano di nuvole: il T’ai Shan luccicava, freddo e bianco di ghiaccio, molto lontano a est; l’Heng Shan era quasi alla stessa distanza, a nord; la nostra cresta Jo-kung sporgeva come lama di rasoio proprio sopra la marea di nuvole che correva indietro a ovest; la cresta K’un Lun era una lontana parete che andava da nordovest a sudest; e remote, molto remote, al limitare del mondo, risplendevano le cime del Chomo Lori, del monte Parnaso, del Kangchengjunga, del monte Koya, del monte Kalais e di altri che non potevo identificare da quell’angolazione. C’era uno scintillio di sole su un oggetto alto al di là della lontana cresta Phari e pensai che forse si trattava del Potala o del più basso Shivling. Smisi di guardare a bocca aperta e mi dedicai al nostro tentativo di prendere quota.
A. Bettik girò intorno a noi e mi rivolse il gesto del pollice alzato. Ricambiai il segnale e guardai in alto. Lhomo, cinquanta metri sopra di noi, segnalava: "Avvicinatevi. Fate cerchi stretti. Seguite me".
Seguimmo lui: Aenea saliva con facilità, tenendosi dietro Lhomo e un po’ di lato, l’aliante azzurro di A. Bettik seguiva il cerchio di ascesa dall’altra parte e io chiudevo il gruppo, quindici metri più in basso e cinquanta metri dall’androide.
Lhomo pareva sapere esattamente dov’erano le termali: a volte giravamo più lontano verso ovest, prendevamo la corrente ascensionale e allargavamo il cerchio per spostarci di nuovo a est. A volte avevamo l’impressione di non salire di quota, ma poi guardavo a nord l’Heng Shan e intuivo che avevamo percorso altre centinaia di metri verso l’alto. Lentamente salivamo e lentamente facevamo cerchi verso est, anche se il T’ai Shan distava ancora di sicuro ottanta o novanta chilometri.
Il freddo aumentava e respirare diventava più faticoso. Sigillai fino in fondo la maschera osmotica e inalai ossigeno puro, continuando a salire. La dermotuta mi si appiccicò addosso, funzionando da tuta a pressione e da tuta termica. Vedevo Lhomo rabbrividire nel chuba di pelo di zigocapra e nei pesanti mezzi guanti. Sul braccio nudo di A. Bettik c’era una patina di ghiaccio. E continuavamo a volare in cerchio e a salire. Il cielo divenne più scuro, lo scenario ancora più incredibile: il distante Nanda Devi a sudovest, l’Helgafell ancora più lontano a sudest e il picco Harney al di là dello Shivling divennero visibili sopra la curvatura del pianeta.
Alla fine Lhomo giunse al limite. Poco prima avevo aperto la maschera osmotica del cappuccio per capire quanto fosse rarefatta l’aria: avevo provato a respirare, mi ero sentito come nel vuoto profondo e avevo subito richiuso la maschera. Non capivo come Lhomo riuscisse a respirare, pensare e agire, a quell’altitudine. Ora ci segnalò di continuare a girare più in alto nella termale che aveva sfruttato, ci rivolse l’antico segno di buona fortuna, pollice e indice uniti in cerchio, e poi lasciò uscire aria rarefatta dal suo aliante a delta e precipitò come un tommifalco in picchiata. Nel giro di qualche secondo il delta rosso fu a varie migliaia di metri sotto di noi, precipitando verso la linea della cresta, a ovest.
Continuammo a girare in cerchio e a salire; a volte perdevamo per un momento la corrente ascensionale, ma la ritrovavamo subito. I margini inferiori della corrente a getto ci spingevano verso est, ma seguimmo il consiglio finale di Lhomo e resistemmo alla tentazione di girare verso la nostra meta: ancora non avevamo quota né vento di coda sufficienti a compiere il viaggio di ottanta chilometri.
Incontrare la corrente a getto era come entrare all’improvviso nelle rapide, a bordo di un kayak. L’aliante di Aenea la incontrò per primo: vidi il tessuto giallo vibrare come in preda a un violento fortunale e la sovrastruttura di alluminio flettersi pazzescamente. Poi A. Bettik e io ci trovammo nella corrente e non potemmo fare altro che tenerci orizzontali nell’imbracatura oscillante dietro la barra di comando e continuare a girare in cerchio per aumentare la quota.
"È dura" mi disse all’orecchio la voce di Aenea. "Vuole liberarsi e puntare a est."
"Non possiamo" ansimai, tirando di nuovo il parapendio nel vento di testa, spinto più in alto in una grande cavalcata verticale.
"Lo so." La voce di Aenea era tesa. Ora mi trovavo a un centinaio di metri da lei e sotto di lei, ma riuscivo a vedere la sua piccola figura lottare con la barra di comando, gambe tese, piedi piantati all’indietro come chi si tuffa da una scogliera.
Scrutai intorno a me. Il vivido sole aveva un alone di cristalli di ghiaccio. Le linee di cresta, così in basso, erano quasi invisibili e le sommità dei picchi più alti si trovavano ora chilometri sotto di noi.
"Come se la cava A. Bettik?" mi domandò Aenea.
Con una torsione del corpo mi sforzai di guardare. L’androide girava in cerchio sopra di me. Teneva gli occhi chiusi, mi parve, ma faceva regolazioni sulla barra di comando. La sua pelle azzurra luccicava per un velo di brina. "Bene, credo" risposi. "Aenea?"
"Sì?"
"C’è qualche possibilità che la Pax a Shivling o in orbita intercetti le nostre comunicazioni via filo?" Avevo in tasca il diskey-diario/ricetrasmittente, ma avevamo deciso di usarlo solo al momento di chiamare la nave. Sarebbe stata una vera ironia, se ci avessero catturato o ucciso perché usavamo i comunicatori delle dermotute.
"Nessuna possibilità" ansimò Aenea. Anche con la maschera osmotica e il respiratore incorporato nella dermotuta, l’aria era povera d’ossigeno e fredda. "I fili hanno una portata molto ridotta. Mezzo chilometro al massimo."
"Allora non allontanarti" dissi e mi concentrai nel prendere ancora qualche centinaio di metri di quota, prima che l’uragano quasi silenzioso che mi sballottava spedisse l’aliante a sibilare verso est.
Fra qualche minuto non avremmo più potuto resistere alla violenza della corrente di quel fiume d’aria. La termale non diminuì, parve solo morire completamente: allora fummo alla mercé della corrente a getto.
"Andiamo!" gridò Aenea, dimenticando che il mio auricolare captava anche il suo minimo bisbiglio.
Vidi A. Bettik aprire gli occhi e farmi segno che tutto andava bene. Nello stesso istante il mio parapendio lasciò la termale e fu spinto a est. Anche con la scarsa trasmissione del suono, avevo l’impressione di rombare nell’aria a una velocità così incredibile da risuonare nelle orecchie. Il delta giallo di Aenea striò il cielo come un dardo di balestra. Il delta blu di A. Bettik lo seguì. Lottai con i comandi, capii di non avere la forza di cambiare il percorso nemmeno di un solo grado e mi limitai a tenermi attaccato, mentre saettavo a est e in basso nel violento fiume d’aria. Davanti a noi splendeva il T’ai Shan, ma ora perdevamo rapidamente quota e la montagna distava ancora molto. Vari chilometri più in basso, sotto il mare monsonico di nubi bianche, le verdastre nuvole di fosgene dell’acido oceano planetario ribollivano, invisibili ma in attesa.
Le autorità della Pax nel sistema di T’ien Shan erano perplesse.
Quando, a bordo della Jibril, ricevette il bizzarro segnale d’allarme dalla enclave della Pax a Shivling, il capitano Wolmak tentò di chiamare il cardinale Mustafa e gli altri, ma non ottenne risposta. Nel giro di qualche minuto inviò una navetta da combattimento con venticinque marines, compresi tre medici.