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Il rapporto in codice su linea diretta con la nave lasciava perplessi. La sala conferenze nel gompa dell’enclave era una rovina sanguinolenta. Dappertutto c’erano schizzi di sangue umano e di viscere, ma l’unico corpo nella sala era quello del Grande Inquisitore, storpiato e accecato. I marines controllarono il DNA del maggiore schizzo di sangue arterioso e scoprirono che apparteneva a padre Farrell. Altre chiazze di sangue risultarono appartenere all’arcivescovo Breque e al suo aiutante, LeBlanc. Ma non c’erano cadaveri. Non c’erano crucimorfi. I medici riferirono che il cardinale Mustafa era in stato comatoso, sotto shock profondo, e prossimo alla morte; lo rimisero in sesto alla meglio, usando solo i kit da campo, e chiesero ordini. Dovevano lasciar morire il Grande Inquisitore e poi risuscitarlo o dovevano metterlo nel medibox della navetta e tentare di salvarlo, anche se sarebbero trascorsi vari giorni prima che riprendesse conoscenza e descrivesse l’accaduto? Altrimenti il medico poteva metterlo nell’apparecchiatura supporto vita, usare droghe per farlo uscire dal coma e interrogarlo nel giro di qualche minuto, ma intanto il paziente avrebbe sofferto moltissimo e sarebbe stato sempre in punto di morte.

Wolmak ordinò di aspettare e si mise in contatto con l’ammiraglio Lempriere, comandante della task force. Al limitare del sistema di T’ien Shan, a molte UA di distanza, le quaranta e passa navi che avevano sostenuto la battaglia contro la Raffaele ricuperavano sopravvissuti dalle Arcangelo irreparabilmente danneggiate e aspettavano l’arrivo della navetta automatica papale e della robonave del TecnoNucleo che avrebbe messo in animazione sospesa la popolazione del pianeta. Ancora nessuna delle due era giunta. Lempriere si trovava più vicino, quattro minuti luce, e la trasmissione avrebbe impiegato appunto quattro minuti a raggiungerlo e farlo accorrere. Wolmak pensò di non avere scelta. Rimase in attesa, mentre il messaggio partiva.

A bordo della nave ammiraglia Raguele, Lempriere si trovò in una situazione assai delicata, con solo qualche minuto per decidere sulla sorte del cardinale Mustafa. Poteva lasciar morire il Grande Inquisitore e confidare che il trattamento abbreviato per risuscitarlo in due giorni avesse successo. Il cardinale Mustafa non avrebbe sofferto troppo. Ma gli autori dell’attacco — lo Shrike, gli indigeni, i discepoli del mostro Aenea, gli Ouster? — sarebbero rimasti un mistero fino allora. Lempriere decise in dieci secondi, ma c’era un ritardo di quattro minuti nella trasmissione avanti e indietro.

«Dica ai medici di stabilizzarlo» trasmise a Wolmak sulla Jibril in orbita intorno al pianeta. «Lo metta nel supporto vita della navetta. Lo porti fuori. Lo interroghi. Quando ne sapremo abbastanza, chieda al robochirurgo una prognosi. Se si farà più in fretta a risuscitarlo, lo lasci morire.»

«Sissignore, sissignore» rispose Wolmak quattro minuti più tardi e passò parola ai marines.

Intanto i marines ampliavano l’area di ricerca e usavano monorepulsori per esplorare le pareti degli strapiombi intorno al Fallo di Shiva. Scandagliarono col radar il Rhan Tso, il lago Lontra, ma non trovarono né lontre né i cadaveri dei prelati scomparsi. Nell’enclave c’era stata, con il gruppo del Grande Inquisitore, una guardia d’onore di dodici marines — più il pilota della navetta — ma anche di loro non c’era traccia. Furono trovati sangue e visceri, fu analizzato il DNA e così si seppe la sorte di quasi tutti gli scomparsi, ma i loro cadaveri non furono trovati.

«Dobbiamo allargare la ricerca al Palazzo d’inverno?» domandò il tenente dei marines al comando della squadra. Tutti i marines avevano il preciso ordine di non disturbare i locali, in particolare il Dalai Lama e il suo popolo, prima che arrivasse la nave del Tecno-Nucleo a mettere a nanna la popolazione.

«Aspetta un momento» disse Wolmak. Vide che la spia del monitor dell’ammiraglio Lempriere era accesa. Anche il diskey di trasmissione, sulla sua rete di comando, palpitava: era l’ufficiale dei servizi segreti della Jibril, giù nella bolla dei sensori. «Sì?»

«Capitano, stavamo monitorando visualmente l’area del palazzo. Laggiù è accaduta una cosa terribile.»

«Quale?» sbottò brusco, Wolmak: di norma i membri del suo equipaggio non erano mai così vaghi.

«Ci era sfuggito, signore» disse l’ufficiale dei servizi. Era una donna giovane ma in gamba e Wolmak lo sapeva. «Usavamo strumenti ottici per controllare l’area intorno all’enclave. Ma guardi questo…»

Wolmak spostò leggermente la testa e guardò il pozzetto olografico dove si formava una immagine che veniva trasmessa anche all’ammiraglio. Il lato est del Palazzo d’inverno, a Potala, visto da alcune centinaia di metri sopra il ponte Kyi Chu.

Il piano stradale del ponte mancava, era stato ritirato. Ma sui gradini e sulle terrazze fra il palazzo e il ponte e su alcune strette cornici nel baratro fra il palazzo e il monastero Drepung sul lato est c’erano decine — centinaia — di cadaveri insanguinati e smembrati.

«Signore Iddio!» esclamò il capitano Wolmak. Si fece il segno di croce.

«Abbiamo identificato la testa del reggente Troka fra i cadaveri a pezzi» disse con calma l’ufficiale dei servizi.

«La testa?» ripeté Wolmak. Si rese conto che quell’inutile commento veniva trasmesso all’ammiraglio insieme col resto: fra quattro minuti l’ammiraglio Lempriere avrebbe saputo che lui faceva commenti stupidi. Pazienza. «Nient’altro di importante, laggiù?»

«Nossignore. Ma ora trasmettono su varie frequenze radio.»

Wolmak inarcò il sopracciglio: fino a quel momento il Palazzo d’inverno aveva mantenuto il silenzio radio. «Cosa dicono?»

«Parlano in cinese mandarino e in tibetano pre-Egira» rispose il tenente. Ma si affrettò a soggiungere: «Sono tutti in preda al panico, capitano. Il Dalai Lama non si trova. E neppure il capo della squadra di sicurezza del piccolo lama. Il generale Surkhang Sewon Chempo, capo della Guardia palatina, è morto, signore… hanno confermato d’avere trovato il suo cadavere privo di testa».

Wolmak lanciò un’occhiata all’orologio. La trasmissione era a metà strada dalla nave ammiraglia. «Chi è stato? Lo Shrike?»

«Non sappiamo, signore. Come ho detto, le telecamere erano puntate altrove. Controlleremo i dischi.»

«Bene, controllate» disse Wolmak. Non poteva aspettare ancora. Trasmise al tenente dei marines: «Vada al palazzo, tenente. Scopra cosa diavolo accade. Mando giù altre cinque navette, VEM da guerra e un tòttero con armamento pesante. Cerchi tracce dell’arcivescovo Breque, di padre Farrell o di padre LeBlanc. E del pilota e della guardia d’onore, naturalmente».

«Sissignore.»

La spia luminosa del collegamento internave divenne verde. In quel momento l’ammiraglio riceveva l’ultima trasmissione. Troppo tardi per aspettare l’ordine. Wolmak chiamò le due più vicine navi della Pax, navi torcia in orbita appena al di là della luna più esterna, e ordinò di prepararsi alla battaglia e di scendere nella stessa orbita della Jibril. Forse gli sarebbe servito maggior potere di fuoco. Wolmak aveva già visto i risultati dello Shrike in azione e si sentì gelare al pensiero che quel mostro comparisse all’improvviso nella sua nave. Chiamò il capitano Samuels nella nave torcia ASS San Bonaventura. «Carol» disse all’immagine dell’allarmato capitano «passa in spazio tattico, per favore.»

Si collegò e si trovò sopra il luccicante globo rannuvolato di T’ien Shan. Samuels comparve all’improvviso accanto a lui, nel buio punteggiato di stelle.

«Carol» disse Wolmak «laggiù succede qualcosa. Forse lo Shrike è di nuovo in azione. Se all’improvviso perdi contatto con la Jibril o se cominciamo a urlare frasi sconnesse…»

«Lancio tre navette di marines» disse Samuels.

«No. Polverizzi la Jibril. Immediatamente.»

Il capitano Samuels non nascose la sorpresa. E la spia luminosa nello spazio tattico rivelò che l’ammiraglia di Lempriere trasmetteva. Wolmak staccò il collegamento.