"Raul?"
"Sì, ragazzina."
"Ti amo, Raul."
Esitai un istante, ma il vuoto emotivo che un momento prima aveva cercato di inghiottirmi fu spazzato via dallo slancio di affetto per la mia giovane amica e amante. "Ti amo, Aenea."
Scendemmo più in basso, nel buio. Mi parve di sentire nel vento un odore acre: il margine delle nubi di fosgene?
"Ragazzina?"
"Sì, Raul?" La sua voce era un bisbiglio nel mio orecchio. Ci eravamo tolti tutt’e due la maschera osmotica, anche se ci avrebbe protetti dal fosgene. Non sapevamo se A. Bettik potesse respirare quel veleno. Se non poteva, avremmo messo in atto il tacito accordo fra Aenea e me: chiudere la maschera e trascinare l’androide su per il pendio e fuori della fascia venefica, nella speranza di raggiungere i margini della montagna prima di colpire il mare di acido, se possibile. Sapevamo che era un piano debole (quando ero sceso sul pianeta, il radar della nave mi aveva mostrato che la maggior parte dei picchi e delle creste cadeva a piombo sotto lo strato di nubi di fosgene: per noi sarebbe stata solo questione di minuti, tra l’ingresso nelle nubi e la caduta nel mare in ogni caso) ma era meglio avere un piano che arrendersi al destino. Nel frattempo, ci eravamo tolti la maschera e respiravamo aria pura finché potevamo.
"Ragazzina" dissi "se sai che non funzionerà… se hai visto ciò che pensi sia…"
"La mia morte?" completò lei per me. Io non sarei riuscito a dirlo.
Mossi stupidamente il capo in un cenno di assenso: non poteva vedermi, nella nuvolaglia.
"Sono solo possibilità, Raul" disse Aenea, piano. "Ma quella che ha le maggiori probabilità di verificarsi non è questa. Non preoccuparti. Non vi avrei chiesto di accompagnarmi, se avessi pensato che questa fosse… quella giusta." Malgrado la tensione, nella sua voce c’era una traccia di divertimento.
"Lo so" dissi, lieto che A. Bettik non potesse sentirci. "No, pensavo a un’altra cosa." Pensavo che forse lei sapeva che l’androide e io saremmo riusciti a raggiungere la montagna, ma lei no. Ora non ci credevo. Finché il mio destino era intrecciato al suo, potevo accettare qualsiasi cosa. "Mi domandavo perché scappiamo di nuovo, ragazzina" dissi. "Sono stufo di scappare dalla Pax."
"Anch’io. E abbi fiducia, Raul, non stiamo facendo solo questo, qui. Oh, merda!"
Non era proprio parola da riportare tra quelle esclamate da un messia, ma in un secondo capii la ragione del suo grido. Venti metri davanti a noi era comparso un pendio roccioso, grossi massi tondeggianti fra tratti di pietrisco, pareti a picco più in basso.
A. Bettik diede l’esempio: tirò in su la barra di comando all’ultimo istante, tolse le gambe dalle staffe dell’imbracatura e usò l’aliante come paracadute. Rimbalzò due volte, tirò giù rapidamente l’aliante e staccò l’imbracatura. Lhomo ci aveva detto varie volte che era importante, atterrando in punti pericolosi e battuti dal vento, staccarsi in fretta dal parapendio per non essere trascinati al di là di qualche ciglione. E decisamente lì c’era un ciglione oltre il quale potevamo essere trascinati.
Aenea toccò terra subito dopo e io qualche secondo più tardi. Il mio fu il più malfatto dei tre atterraggi: rimbalzai in alto, ricaddi quasi a piombo, mi procurai nel pietrisco una storta alla caviglia e finii sulle ginocchia, mentre il parapendio urtava violentemente un masso sopra di me, piegava l’intelaiatura metallica e lacerava la stoffa dell’ala. L’aliante a quel punto si piegò all’indietro e mi tirò verso l’orlo del precipizio, proprio come aveva detto Lhomo; ma A. Bettik afferrò i puntoni di sinistra, Aenea afferrò un attimo dopo il longherone destro spezzato e insieme riuscirono a stabilizzare il parapendio quanto bastava perché mi liberassi dell’imbracatura e mi allontanassi zoppicando di qualche passo dal relitto, tirandomi dietro lo zaino.
Aenea si inginocchiò sulle rocce fredde e bagnate ai miei piedi, mi slacciò lo scarpone ed esaminò la caviglia. «Non mi pare una storta grave» disse. «Forse gonfierà un poco, ma dovresti farcela a camminare.»
«Bene» dissi come uno stupido, consapevole solo delle sue mani nude sulla mia caviglia nuda. Poi sobbalzai un poco, mentre Aenea spruzzava sul gonfiore un liquido preso dal medikit.
Lei e A. Bettik mi aiutarono a tirarmi in piedi. Prendemmo i bagagli e iniziammo a braccetto a risalire il pendio scivoloso verso il punto dove le nubi luccicavano più vividamente.
Sbucammo alla luce bene in alto sui sacri pendii del T’ai Shan. Mi ero tolto il cappuccio e la maschera, ma Aenea mi consigliò di tenere la dermotuta. Indossai il giubbotto termico per sentirmi meno nudo e notai che la mia amica mi imitava. A. Bettik si strofinava il braccio e vidi che per il freddo d’alta quota aveva la pelle quasi bianca.
«Stai bene?» gli domandai.
«Benissimo, signor Endymion. Ma ammetto che qualche minuto ancora a quell’altitudine…»
Guardai in basso le nuvole che coprivano il punto dove avevamo piegato e abbandonato gli alianti danneggiati. «Ho il sospetto che non lasceremo questa montagna in parapendio» notai.
«Non ti sbagli» disse Aenea. «Guarda.»
Eravamo usciti dalla distesa di massi tondeggianti e di pietrisco; ci trovavamo in un altopiano erboso fra grandi pareti di roccia: prati di cactus succulenti intersecati di piste di zigocapre e di sentieri con pietre per passare a guado. Sulle rocce scorrevano rivoli d’acqua di scioglimento glaciale, ma c’erano ponti fatti con lastre di pietra. In lontananza alcuni pastori ci avevano guardato senza interesse mentre salivamo. Ora, superato un tornante sotto i grandi campi di ghiaccio, vedevamo in alto quelli che potevano solo essere templi di pietra bianca posti su bastioni grigi. I luccicanti edifici, vividi contro la distesa biancazzura di ghiaccio e i pendii innevati che salivano fuori vista fino allo zenit, parevano simili ad altari. Aenea mi aveva indicato una grande pietra bianca e liscia, di fianco al sentiero, sulla quale era incisa questa poesia:
A cosa posso paragonare il Grande Picco?
Nelle province intorno, il suo colore verdazzurro mai scompare alla vista.
Dal Plasmatore infuso del sublime potere di divinità,
ombreggiato e assolato, con i pendii divide la notte dal giorno.
Con petto anelante salgo verso le nuvole
e sforzo gli occhi per seguire uccelli che volano a casa:
un giorno raggiungerò la sua impareggiabile vetta
e in una sola occhiata vedrò tutte le montagne.
TU FU, dinastia T’ang, Cina, Vecchia Terra
E così entrammo a Tai’an, la Città di Pace. Là, sui pendii, c’erano decine e decine di templi, centinaia di botteghe, locande e abitazioni, innumerevoli sacrari e una strada fervida d’attività, costeggiata di banchetti, ciascuno coperto da un vivace riparo di tela. Le persone erano attraenti, parola inadeguata, ma l’unica adatta, penso: tutte con capelli neri, occhi vivaci, denti candidi, pelle sana, orgoglio e vigore nel portamento e nell’andatura. Avevano abiti di seta e di cotone stampato, vivaci ma di semplice eleganza, e c’erano tantissimi monaci in tonaca arancione o rossa. Se la folla ci avesse guardato a occhi sgranati, sarebbe stato giustificabile: nessuno visita T’ai Shan nei mesi del monsone. Invece vidi solo occhiate calorose e di benvenuto. Anzi, parecchie persone nella via si mossero intorno a noi, salutarono per nome Aenea, le toccarono la mano o la manica. Ricordai allora che la mia amica aveva già visitato il Grande Picco.
Aenea indicò la grande lastra di roccia bianca che copriva un pendio sopra la Città di Pace. Sulla lucida faccia di quella lastra, ci spiegò, era scolpito, in enormi caratteri cinesi, il Diamond Sutra, uno dei lavori basilari della filosofia buddhista, che ricordava al monaco e al passante la natura finale della realtà, simbolizzata nella vuota distesa di cielo azzurro. Aenea ci indicò anche la prima Porta Celeste al limitare della città: un gigantesco voltone di pietra sotto un tetto rosso a forma di pagoda, con il primo dei ventisettemila gradini che portavano alla vetta di Giada.